Veglie alla fattoria presso Dikan'ka
Nikolaj Vasil'evič Gogol'
"Con questa
storia è successa una storia; ce la raccontò Stjepàn Ivànovič Kùročka che era
venuto da Gadjàč. Dovete sapere che la mia memoria non si può dire come sia
cattiva: che tu parli, che tu non parli è la medesima cosa. È lo stesso che
versare dell’acqua in un setaccio. Conoscendo questa mia pecca, gli chiesi
appositamente di scrivermela in un quadernetto. Ebbene, che Dio gli dia salute,
è sempre stato buono con me, e me la scrisse. La mise nel tavolino piccolo;
credo che lo conosciate bene; è nell’angolo quando s’entra dalla porta… (...)
I – IVÀN FJÒDOROVIČ
ŠPÒGNKA
Son già quattr’anni che Ivàn Fjòdorovič Špògnka è in riposo e vive nella sua
fattoria di Výtrebegnki. Quando era ancora Vanjùša,
imparava nella scuola distrettuale di Gadjàč, e, conviene dirlo, era un ragazzo
educatissimo e diligentissimo. Il maestro di grammatica russa, Nikìfor
Timofèjevič Djejepricjàstje, diceva che, se tutti fossero stati diligenti come Špògnka,
non si sarebbe portato in classe la riga d’acero, con cui, come egli stesso
confessava, si stancava di dare bacchettate sulle mani dei pigri e dei monelli.
Aveva sempre il quaderno pulito, rigato tutto in giro, senza nemmeno una
macchietta. Sedeva sempre tranquillo, con le mani composte e gli occhi fissi
sul maestro, e non appuntava mai sulla schiena del compagno che gli sedeva
davanti dei pezzi di carta, non tagliuzzava i banchi e non giocava prima che il
maestro entrasse a tjèsnaja bàba. Quando qualcuno aveva bisogno di un temperino
per temperare una penna, immediatamente si rivolgeva a Ivàn Fjòdorovič, sapendo
che lui aveva sempre il temperino; e Ivàn Fjòdorovič, allora ancora
semplicemente Vanjùša, lo tirava fuori da un piccolo astuccio di pelle, legato
all'occhiello del suo cappotto grigio, e chiedeva soltanto di non raschiare la
penna col filo del temperino, assicurando che per questo vi era la lama ottusa.
Tale morigeratezza presto attirò l’attenzione persino del professore di latino,
di cui la sola tosse nell’andito, prima ancora che si affacciassero alla porta
il suo cappotto di panno e la sua faccia abbellita dal vaiolo, incuteva terrore
a tutta la classe. Questo terribile professore che sulla cattedra teneva sempre
due fasci di giunchi e di cui la metà degli scolari stava in ginocchio, aveva
fatto Ivàn Fjòdorovič uditore, nonostante in classe vi fossero molti con
capacità assai migliori. Qui non è possibile tralasciare un fatto che ebbe
influenza su tutta la sua vita. Uno degli scolari a lui affidati, per indurre
il suo uditore a scrivergli nella tabella scit, mentre la sua lezione non la
sapeva affatto, portò in classe, avvolta in un pezzo di carta, una frittella
intinta nel burro. Ivàn Fjòdorovič, benché stesse per la rettitudine, in quel momento
aveva fame e non poté resistere alla tentazione; prese la frittella, si mise
davanti un libro e cominciò a mangiare, ed era così intento a questo che non si
accorse nemmeno che in classe ad un tratto si era fatto un silenzio di tomba.
Solo allora con orrore tornò in sé, quando una terribile mano, allungatasi dal
cappotto di panno, lo afferrò per un orecchio e lo trascinò in mezzo alla
classe, «Da’ qui la frittella! Dalla, ti si dice, mascalzone!» disse il
terribile professore, prese con le dita la frittella unta e la gettò dalla
finestra, vietando severamente agli scolari che correvano nel cortile di
raccattarla. Dopo di ciò, dette una sferzata molto dolorosa sulle mani a Ivàn
Fjòdorovič; e con ragione: le mani erano colpevoli di aver preso, e non un’altra
parte del corpo. Comunque fosse, il fatto è che da quel tempo la sua timidezza,
già da lui indivisibile, si accrebbe ancora di più. Può darsi che proprio
questo avvenimento fosse causa che egli non ebbe mai desiderio di prendere un
impiego civile, avendo veduto per esperienza che non sempre è dato farla
franca. (...)