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Lunario dei giorni di scuola


Decima settimana

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Storia di una maestra

Josefina Aldecoa 

Quando arrivarono le vacanze di Natale, Emile m’invitò ad accompagnarlo nelle sue ispezioni sanitarie: le tenute erano vicine alla città, ma di solito bisognava raggiungerle con una piccola barca perché le strade erano in pessime condizioni e difficili da percorrere. Le piantagioni di cacao si estendono per chilometri. Entrandoci, si cammina sempre all’ombra delle grandi foglie degli alberi di cacao e non si vede all’orizzonte oltre a pochi metri.
Tra questi alberi, ci sono anche abbondanti platani, alberi da cocco, palme, manghi e alberi di alto fusto molto grandi.
«La vita del bracciante è davvero dura» mi spiegò Emile. «Ma la cosa più grave è che sono vittime della malattia del sonno. Per questo gli facciamo dei prelievi di sangue ogni tre mesi, per analizzarlo e vedere se sono stati punti dalla mosca tze­tze. Inoltre hanno bisogno di avere la tessera sanitaria per poter continuare a lavorare, perché si tratta di una malattia molto contagiosa».
Mi presentava i proprietari e gli amministratori delle piantagioni, tutti europei, e quelli, tra il gentile e il sorpreso, mi baciavano la mano o me la stringevano energicamente.
Al rientro dal nostro primo giorno di esplorazione, Emile congedò il tirocinante nero che era venuto con noi e m’invitò a vedere casa sua. Viveva vicino all’ospedale con la madre. La donna mi guardò stupita e rivolse al figlio uno sguardo di rimprovero. Lui m’invitò ad accomodarmi e mi offrì una bibita fruttata e zuccherina.
«Tra pochi giorni» disse «sarà vino, ma per adesso è ancora una bevanda rinfrescante...».
Mi mostrò i suoi libri, una collezione di riviste di viaggio e il giornale El Sol che riceveva dalla penisola. Chiacchierammo sotto lo sguardo severo della madre e il brusio del ventilatore che girava sul soffitto.
«Mia madre non crede ai bianchi. Non si fida di loro» mi chiarì quando ci salutammo.
Non mi ero mai fermata prima ad analizzare il significato della parola razzismo, ma non ci sarebbe voluto molto perché mi rendessi conto che la reazione della madre del mio amico non era un fatto isolato o una stravaganza, bensì la conseguenza di una realtà ampiamente diffusa.

Il parroco mi aveva fatto chiamare e andai da lui.
«Figliola» mi disse, «lei sa che questi negri praticano religioni selvagge. La nostra missione è sempre stata quella di evangelizzarli. Oggi molti di loro sono battezzati, soprattutto quelli che vivono nelle città o nelle loro vicinanze, ma c’è ancora tanto da fare. Voi maestri dovete aiutarci...».
Poi si lamentò del persistere dei neri nelle loro antiche credenze e dell’ingenua miscela tra i riti cristiani e quelli autoctoni. Mi chiedeva che, sotto Natale, andassi in chiesa con i bambini a pregare e a cantare. Nel tentativo di mantenere una convivenza serena, accettai il suo suggerimento, sebbene fossi in ferie e non avessi ben chiaro il mio dovere missionario.
La notte del 24 assistetti alla Messa di Mezzanotte e mi misi dietro ai bambini che avevano imparato diverse canzoncine di Natale abbastanza facilmente e con un certo entusiasmo. Terminato il rito religioso, uscii per strada e, nel buio, m’imbattei in Emile. Mi salutò affettuosamente e poi m’invitò a seguirlo.
«Voglio che tu veda la nostra vera festa...».
In tutta la città, raccolta intorno alla baia, risuonava la musica nera. Le canzoni, i colpi ossessivi sui bonghi, le danze infervorate.
Per strada c’erano solo loro. Portavano avanti la festa iniziata in chiesa e la trasformavano in qualcosa di esclusivamente loro che prendeva vita al calore della musica e dell’alcol fermentato della palma. Per le strade e lungo i vicoli, il rumore entrava nelle case dei bianchi al cui interno celebravano la propria festa rituale.
Passeggiavamo in silenzio accanto all’acqua, lungo il porto in cui le barche e le chiatte riposavano, e il frenetico fluire della musica ci circondava.
«Tutto questo è nostro» disse Emile, «ci appartiene e non può togliercelo nessuno, ma ci distruggeranno se non usciamo dall’ignoranza e dalla schiavitù in cui viviamo...».
Era diventato triste e quando mi ritirai nella mia stanza, le sue parole continuavano a risuonarmi nelle orecchie. Stavo vivendo sull’isola da un tempo ormai sufficiente per rendermi conto che i suoi problemi non erano facili da risolvere. Che io sapessi, nessuno era interessato a farlo e pochi, tra gli stessi autoctoni, erano consapevoli delle radici dei loro mali.
Mentre spingevo la porta della mia stanza per entrarci, dal buio del corridoio apparve un’ombra. Credetti fosse Manuel perché l’ombra si muoveva in modo goffo e pensai fosse sotto l’effetto dell’alcol della festa.
«Manuel» urlai, «Manuel».
Non rispose nessuno. Entrai nella mia camera e cercai di chiudere lo sgangherato chiavistello che mi proteggeva dall’esterno. Ma l’ombra aprì la porta con uno spintone e mi gettò a un lato.
«Manuel» urlai di nuovo, spaventata.
Non era Manuel. Il suo volto scomposto si avvicinò al mio e riuscii a distinguere, alla flebile luce che filtrava dalla finestra, il viso bianco, le mani bianche e le oscure parole dell’amministratore dell’ospedale.
Mi stringeva con forza e tentava di baciarmi, sputandomi addosso il suo alito da ubriaco, mentre mormorava con furia:
«Se vai bene per il negro, allora andrai bene anche per me...».
Lottai come potei e cercai invano di liberarmi da lui, ma sentivo ormai il suo corpo sudato sul mio, quando riuscii a gridare. L’urlo risuonò oltre la musica, la festa, la città nera. La porta si aprì e ora sì, era Manuel. Manuel che rimase muto e immobile sulla soglia. Ma fu sufficiente perché il mio aggressore reagisse. Si allontanò da me e con un colpo gettò Manuel contro la parete. Quando scomparve, mi sdraiai sul letto e scoppiai a piangere, mentre Manuel chiudeva la porta e scendeva le scale, rispettando la mia solitudine e il mio dolore.

Noi bianchi vivevamo in attesa dell’arrivo delle navi. La corrispondenza, i viveri, gli oggetti di prima necessità giungevano dal mare. Di solito erano navi straniere: olandesi, inglesi, tedesche. Arrivavano cariche di mercanzie per le tenute degli europei e se ne andavano cariche di cacao.
«Il miglior cacao del mondo» mi diceva Emile con il suo eterno sorriso. A Natale, le barche e i battelli che prestavano servizio a Santa Isabel ci avevano consegnato regali e messaggi da parte delle nostre famiglie. Mio padre mi scriveva spesso. Le lettere ci impiegavano quindici o venti giorni, a volte un mese. Mi dava notizie del nostro paese. Gli amici che mandavano i loro saluti, le varie malattie, i matrimoni delle persone conosciute.
Raramente faceva riferimento al forte dispiacere di mia madre dovuto alla mia decisione di andarmene in un luogo così lontano.
Anch’io scrivevo a mio padre. Gli raccontavo com’era l’isola e gli facevo minuziose descrizioni del mare, della foresta, dei vulcani inattivi. Gli elencavo le piante che crescevano negli orti famigliari. E gli animali domestici che giravano intorno alle persone in una convivenza illimitata. Gli parlavo molto dei bambini, gli raccontavo la mia maniera di insegnare, i mille modi di ingegnarmi per farmi capire; i progressi che facevano nella nostra lingua. Gli mandavo elenchi di libri che doveva comprarmi e i soldi per farlo. Ogni mese gli spedivo anche metà del mio stipendio. Non lo rifiutarono mai. Sapevo che ne avevano bisogno e in realtà io ne avevo fin troppo, il doppio di quello pagato nella Penisola.
Non gli parlai del mio amico nero, né dell’amministratore bianco e nemmeno dell’amara conclusione della vigilia di Natale.
Di questo non volli parlare dettagliatamente nemmeno con Emile, perché ne temevo la reazione. Ma non potei evitare di alludervi. Ero troppo angosciata per restare in silenzio. Quindi optai per una via di mezzo e gli dissi di un incontro fortuito sulla porta della mia stanza, delle condizioni di ubriachezza del bianco, di certo modo grezzo di comportarsi con me e di come aveva maltrattato Manuel.
Proprio come temevo, Emile s’infuriò. Il suo solito sorriso lasciò spazio a un truce cipiglio.
«Sono sicuro» disse «che non riesce a sopportare la nostra amicizia. Non la approva nessuno, ma lui mi odia e si rifiuta di accettare che sono un nero emancipato con un titolo in mano...».
Allora mi raccontò di come suo padre fosse stato protetto da un alto funzionario francese delle Colonie, a cui aveva salvato la vita in circostanze che non mi spiegò, all’epoca dei trattati africani tra Francia e Spagna.
«Ho studiato con i Padri e poi sono diventato medico in Francia».
Ma non aveva mai rinunciato al suo paese. Gli occhi gli brillavano quando parlava della bellezza della sua terra, della bontà della sua gente e della difficoltà e della miseria in cui vivevano.
(...)
Quando ripenso al passato, mi sembra di vedere le sequenze di un film. Ciò che non si condivide non lascia tracce né nostalgia. Non si sente la mancanza del bene perso in solitudine. Nemmeno il dolore, se sofferto da soli, serve come mesto riferimento.
Il tempo che trascorsi in Guinea fu un tempo di solitudine. Era un mondo di uomini, la maggior parte dei quali solitari. Un mondo di dura lotta e sacrificio per ottenere l’unico fine che risultava evidente: il denaro. Proprietari di piantagioni, commercianti, funzionari, negozianti, arrivavano tutti alla colonia pronti a ritornare indietro arricchiti. Questo obiettivo non implicava necessariamente che i coloni bianchi fossero malvagi. Ma si presupponeva in loro un comportamento aspro, poco attento alle sfumature e ai sentimentalismi.
I miei rapporti con le persone erano molto esigui e si limitavano a questioni strettamente professionali. Visite, inviti, tutto era all’insegna del carattere ufficiale del mio ruolo e del mio posto nella colonia.
Poco dopo Natale, un giorno il parroco m’invitò a visitare la Missione a tre ore di marcia dalla nostra città. Nella Missione c’erano circa cinquanta interne che vivevano insieme a tre suore e una bella chiesa guidata da un sacerdote. Faccio fatica a identificarmi con l’innegabile lavoro delle suore. Le donne che lì risiedevano imparavano dei mestieri; uscivano dalla loro condizione di analfabete denutrite per essere educate alla religione cattolica. È vero. Ma all’epoca credevo già di più nella giustizia che non nella carità. Rispettavo il lavoro delle suore, ma non era il mio. Il mio sogno era un altro. Educazione, cultura, libertà d’azione, di scelta, di decisione. E, innanzitutto, condizioni di vita dignitose, cibo, igiene, sanità.
«Non chiedi praticamente nulla...» mi diceva Emile, triste. «La fame in Africa non finirà mai. L’Africa è la vittima dell’uomo bianco».
Non lo contraddicevo, ma notavo che viveva in un perenne stato di esaltazione. A volte pronunciava frasi minacciose, il cui significato ultimo mi sfuggiva. Quando gli chiedevo chiarimenti su ciò che aveva appena detto, diventava ermetico. Credo lottasse tra il desiderio di raccontarmi qualcosa d’importante e la riservatezza sottesa nel contenuto stesso di ciò che mi nascondeva.
I giorni passavano e io acquisivo routine, abitudini, modi di convivenza. In una parola mi adattavo al contesto. Mi ritrovavo a ripetere le azioni dei bianchi della colonia. Credo fossero strumenti di sopravvivenza che imitavo in modo inconsapevole: cosa bisognava mangiare, cosa bisognava indossare, i rifugi a seconda dell’ora del giorno, le commissioni, le medicine preventive. E al tempo stesso mi avvicinavo lentamente ad altri strumenti che sembravano reggere la vita dei miei bambini.
Cercavo di spiegargli il ciclo vitale delle loro piante, le conseguenze della loro situazione geografica, l’importanza del clima, l’umidità e il caldo. Gli interessava tutto e, nonostante il loro scarso vocabolario, mostravano di capire l’essenziale.
«Questo è un paese ricco» dicevo loro. Ma non capivano. E io non riuscivo a trovare le parole per trasmettere i concetti base di economia. “Più in là” mi dicevo.
«Più in là» dissi a Emile.
«Il giorno in cui lo capiranno, dovrai scappare da qui...».
A febbraio le piogge distrussero la scuola. Il tetto di nipa si ruppe, nonostante la sua inclinazione, nonostante l’ampia grondaia che proteggeva il perimetro dell’edificio. L’acqua filtrò con violenza tra le fibre vegetali e il suo impetuoso fragore m’impediva di sentire le nostre stesse voci. Un asse mal posizionato cadde giù e si trascinò dietro tutta la struttura del tetto. I bambini non avevano paura. Mi guardavano con i loro grandi occhi sorridenti e cercavano di aiutarmi a raccogliere i fogli bagnati e gli oggetti che l’inondazione trascinava nella classe. «Lluvia, lluvia», pioggia pioggia, ripetevano entusiasti della loro conoscenza della mia lingua.
L’ombrello non mi servì a nulla. Fradicia, schizzando nel fango, mi avvicinai a casa. Lungo il cammino incontrai Manuel che mi veniva incontro per offrirmi aiuto e compagnia. Scalzo, il suo magro corpo adolescente brillava con le gocce di pioggia quando il sole, o meglio, il bagliore di un sole nascosto, iniziò a lasciar spazio a un’ingannevole calma.

 




















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