Il
dono di Asher Lev
Chaim Potok
Garzanti
(...) Ci fermammo davanti a una porta in un
corridoio silenzioso.
Dallo spioncino vidi di sfuggita una donna giovane
e bruna, di una bellezza folgorante, seduta dietro la cattedra, facce di
bambine tutte in fila e un'alta parete di finestre bagnate di pioggia.
"E meglio che lei sappia", disse Rav
Greenspan, "che l'insegnante non è ebrea. E' una delle migliori docenti
della scuola. Tutti i nostri insegnanti sono o ladover o non ebrei. Da noi non
insegnano ebrei non osservanti. Danno un cattivo esempio ai bambini. Venga, la
stanno aspettando". Aprì la porta e io lo seguii nell'aula. La porta si
chiuse con il sibilo smorzato del freno idraulico.
Tutte le teste nella classe si girarono a
guardarmi. L'insegnante si alzò in piedi dietro la cattedra. Indossava una
blusa avorio con le maniche lunghe e il collo alto e una gonna blu.
Come a un segnale, tutte le scolarette si alzarono
in piedi.
"Signorina Sullivan", disse Rav
Greenspan. "Questo è Asher Lev".
"E' per me un onore conoscerla", disse.
Non mi porse la mano.
"Sedete pure", disse Rav Greenspan alla
classe.
Con un leggerissimo scalpiccio, le bambine si
affrettarono a sedersi. La signorina Sullivan si allontanò dalla cattedra e,
andando a mettersi davanti alla parete di finestre, proiettò la sua silhouette
contro la luce grigia del mattino piovoso. I suoi capelli neri, tirati
indietro, erano raccolti in uno chignon. Rav Greenspan rimase in piedi davanti
alle scolarette. "Buongiorno, ragazze. Voglio presentarvi il signor Asher
Lev, che è un pittore molto famoso. Molti suoi quadri si trovano in musei
americani ed europei. E' cresciuto in questo quartiere e ha frequentato questa
yeshivah. Ha accettato di venire qui, questa mattina, a parlarci di arte e
delle sue opere, e a rispondere alle domande che vorrete porgli."
Il signor Lev Rav Greenspan si allontanò dalla
cattedra e andò a mettersi verso il fondo dell'aula, lungo la parete di fronte
alle finestre. Si appoggiò alla parete e incrociò le braccia sul petto. Lì in
piedi, in fondo all'aula, parve all'improvviso un'oscura presenza di vigile
guardiano.
Ero solo di fronte alla classe.
Una classe di venticinque, tutte ragazze; la
sezione maschile della yeshivah era nell'edificio adiacente. Sedevano in
quattro file, ciascuna a un banco singolo. Nella quinta fila c'erano tre
adulti, due dei quali donne; il terzo era un uomo anziano dalla barba grigia in
completo, cravatta e cappello scuri. Ricordai di averlo visto in casa di mio
zio Yitzchok durante la settimana di lutto, ma non sapevo chi fosse. Rocheleh era
seduta in seconda fila. Nel pesante silenzio dell'aula, udii l'improvviso
levarsi e smorzarsi di un clacson da un'auto che passava. Vidi che tutte mi
guardavano, e io non sapevo cosa dire.
Faceva caldo nell'aula e avevo cominciato a sudare
sotto il berretto da pescatore. Fuori, la pioggia continuava a cadere e gli
angoli delle finestre erano appannati. Guardai le file di volti. Ragazzine con
la coda di cavallo, le trecce, i riccioli corti, la riga da un lato, la ciocca
lunga trattenuta da una molletta. Facce sottili, facce allungate, facce
rettangolari, facce grassocce e occhialute, facce rotonde, facce cilindriche,
facce triangolari, facce pallide, facce arrossate. C'era Rocheleh, in attesa.
Una ragazzina aveva i capelli rossi e sedeva allungata sulla sedia, come se
temesse di essere vista. Mi stava osservando con gli occhi azzurri spalancati.
Occhi, occhi in attesa. Comincia come faresti con un disegno.
Comincia con un punto. Un altro punto. Una linea.
Una verità chiara e immediata.
"Buongiorno", mi sentii dire, mi schiarii
la gola e ripetei, "Buongiorno", e in qualche modo andai avanti.
"Tanto tempo fa ho studiato in questa yeshivah e ringrazio Dio per avermi
mantenuto in vita in modo da essere qui con voi oggi. Studiavo l'inglese,
scrivevo dei temi e passavo molto tempo a guardare dalla finestra. Ma un
artista deve dire la verità e la verità è che, più di ogni altra cosa,
disegnavo sui quaderni e facevo arrabbiare i miei insegnanti". Un'onda di
risate trattenute serpeggiò per la classe. "I miei compagni mi
consideravano strambo. Non facevo granché d'altro. Disegni, disegni, disegni.
Qualcuna di voi disegna, disegna, disegna tutto il tempo?". Tutte
tacevano. "Ma tutte disegnano qualche volta".
Tutte fecero segno di sì con il capo.
"Che cosa disegnate"?
Immediatamente le mani si alzarono. Le interpellai
tutte, una dopo l'altra. "Il Seder di Pesach".
"La succah, il luvov e il lethrog".
"Le danze con la Torah".
"I giochi con gli archi e le frecce per Lag Bò
Omer".
"Case".
"Giardini".
"Moshe Rabbenu sul Monte Sinai".
"La tavola del Sabato".
"Noè nell'arca".
"Molto bene", dissi. "Mi pare che
disegnate tutte. Ora ditemi una cosa. Perché disegnate?".
Di nuovo le mani schizzarono su. Rocheleh sedeva in
silenzio accanto alle finestre e osservava. "Mi diverte" disse una
ragazzina. "Mi piace", disse un'altra.
"Ce lo fa fare l'insegnante", disse una
terza.
Risolini serpeggianti per l'aula, la signorina
Sullivan sorrise.
Rav Greenspan rimase appoggiato alla parete sul
fondo, con le braccia incrociate sul petto robusto. Le due donne e l'uomo
nell'ultima fila ascoltavano impassibili. Rocheleh non aveva ancora alzato la
mano. La pioggia scrosciava sul viale; pareva che fosse calata la notte.
"Perché gli insegnanti ve lo fanno fare?", domandai.
"Ci aiuta a ricordare meglio le cose",
disse una bambina in prima fila.
"Sì. Che altro?". Silenzio. "Non
succede nient'altro quando disegnate? Pensateci un momento. Chiunque di
voi". Esitante, dalla seconda fila, una ragazzina con le trecce:
"Penso che a volte mi aiuta a esprimere i miei sentimenti".
"In che modo?".
"Quando sono arrabbiata adopero un sacco di
rosso".
"Nessun'altra di voi disegna i suoi
sentimenti?".
"Qualche volta se non mi piace qualcuno gli
faccio una faccia brutta", disse una ragazzina non lontana da Rocheleh. Le
due donne nell'ultima fila si scambiarono un'occhiata.
"E se disegni qualcuno che ti piace?",
domandai.
"Cerco di farlo carino".
"A nessun'altra di voi capita di disegnare i
suoi sentimenti?". Silenzio. Un rivolo di sudore mi scese come un insetto
lungo la spina dorsale. Avrei voluto appoggiarmi alla lavagna dietro di me e
grattarmi la schiena. Il silenzio si protrasse. Alcune bambine si mossero a
disagio sulla sedia. Che altro? Pensa. Pensa. Due punti. Una linea. Forma.
Spazio. Il piano bidimensionale. Colore. Un quadro. I dipinti alle pareti dello
zio Yitzchok. Cèzanne, Renoir, Matisse, Bonnard, Chagall, Utrillo, Soutine.
"Tutti i disegni sono uguali?", domandai.
" No!", risuonò nell'aula. "In che
cosa sono diversi?".
"Alcuni sono migliori degli altri", disse
la ragazzina seduta di fronte a me. "Perché sono migliori?", le
domandai.
"Sono migliori. Sono più reali".
"Sono più veri", disse una seconda
ragazza.
"Vuoi dire che sembrano delle
fotografie?".
"Proprio così", disse la seconda.
"Siete tutte d'accordo che un disegno che assomiglia a una fotografia è
migliore di uno che non gli assomiglia?" Tra tutte le teste che
assentivano, vidi Rocheleh; era l'unica dell'aula a scuotere il capo. Ma non
disse nulla. "Volete dire che un disegno così", estrassi un gessetto
arancione dalla scatola che avevo comprato in cartoleria e, con gesti rapidi,
disegnai sulla lavagna una rappresentazione infantile di un ariete: zampe
sottili e goffe, corpo e testa sproporzionati, corna asimmetriche, "è meno
vero e meno reale di un disegno così?". In un'unica linea ininterrotta,
disegnai i contorni realistici di un ariete, poi con il gessetto ombreggiai il
ventre dando l'illusione della tridimensionalità.
Le scolarette proruppero all'unisono in un
"Sì".
"E che cosa ne dite di quest'altro
ariete".
Disegnai un'astrazione lineare dell'ariete, senza
ombreggiatura, sottolineando i contorni delle cosce posteriori per enfatizzarne
la forza e abbellendo la maestosa, alta spirale delle corna. "Quale ariete
è più vero?".
Silenzio. Vidi i loro giovani occhi spalancati
passare da un disegno all'altro, quello infantile, quello realistico, quello
astratto e vidi anche il sorrisino sul volto di Rocheleh.
"Non sono tre modi diversi di vedere lo stesso
oggetto?", dissi.
"Il primo è il modo di vedere di un bambino.
Il secondo è un modo di vedere realistico, come lo vedrebbe una macchina
fotografica, per esempio. E il terzo", indicai il disegno astratto, "
be', che cos'è il terzo?". "E' più strano", disse una ragazzina.
"Perché è strano?", domandai.
"Sembra strano", disse. "Non ho mai
visto un ariete come quello".
"Certo. Allo zoo".
"Quante di voi hanno visto un ariete come
questo?".
Quasi tutte le mani si alzarono. "Avete visto
tutte questo tipo di ariete?", dissi ."Così piccolo? Di questo
colore?".
Un mormorio di perplessità corse per la classe.
"Che cos'è questo?", domandai indicando
il disegno.
"Un disegno."
"Esattamente", dissi. "è un disegno.
E assomiglia moltissimo a quello che un ariete appare ai nostri occhi. Ora, che
differenza c'è tra questa visione esterna dell'ariete e il terzo disegno
dell'ariete?".
Una ragazzina in quarta fila, lunghi capelli bruni,
occhi scuri, labbra sottili alzò la mano. "Il terzo disegno è una visione
interna dell'ariete" "Che cosa vuol dire interna?". Non rispose.
"Chi ha fatto il disegno?" . "L'ha fatto lei", disse."
È la sua visione interna".
"Sì. Come si chiama questo tipo di visione
interna? C'è un termine importantissimo che conoscete tutte". Un silenzio
carico di tensione e l'ansiosa ricerca della chiave che schiude il mistero.
Aspettai un momento. "Qualcuno vuole provare?"
Scrutai tra le file di facce voltate in su. In
fondo all'aula le due donne, l'uomo con la barba grigia e Rav Greenspan
parevano tutti ipnotizzati, gli occhi fissi su di me, in trepidante attesa.
Contro i vetri delle finestre si stagliava la silhouette della signorina
Sullivan, occhi sgranati, un vago sorriso stampato sulle labbra. Un ariete.
Avevo visto un ariete allo zoo. Mentre passeggiavo
con Devorah e i bambini? Fra tutti gli animali che avrei potuto disegnare,
perché avevo scelto un ariete?
Rocheleh alzò la mano.
Poi la ragazzina coi capelli rossi e l'aria
timorosa, seduta quasi sul fondo, alzò la mano e feci cenno a lei.
"E' un interpretazione", disse.
"Sì", dissi. "Esatto. E' un'interpretazione.
Adesso ditemi una cosa. Quale grande interprete studiate? Non di disegni ma di
parole".
Ci fu un altro silenzio.
"Lo portate con voi", dissi. "lo
studiate ogni giorno. È il migliore, il più chiaro di tutti gli
interpreti".
"Rashi!", gridarono una decina di voci.
Una di queste era la voce di Rocheleh.
"Ditemi un'altra parola per interprete?"
"Commentatore", gridarono alcune voci .
"Rashi è l'unico commentatore?".
"No!".
"Chi sono gli altri?
"Ibn Ezra ".
"Ramban".
"Rashbam".
"Sono tutti uguali?", domandai.
"No!".
"Hanno tutte le stesse idee?".
"No!"
"Che cosa interpretano?"
"La Torah"
"Tutti interpretano la stessa cosa . Ma vedono
parti di essa in modo diverso, vero?".
"Sì!"
"Perché li stampiamo nello stesso Chummash?
Perché? Perché non ne stampiamo uno solo? Perché non stampiamo solo Rashi?
"Nel Chummash che usiamo in classe c'è solo
Rashi", disse una ragazza, esitante. "Ma nel Chummash di mio fratello
ci sono tutti gli altri".
"Anche nel Chummash della sinagoga ci sono gli
altri", disse la ragazza coi capelli rossi dal fondo della classe.
"Perché stampiamo tutti i commentatori?",
domandai di nuovo.
"E' più interessante", disse una ragazza.
"Come si fa a scegliere quale lasciar
fuori?", domandò un'altra.
"Bisogna stampare tutti quelli buoni. Mio
fratello dice che è entusiasmante averli tutti".
Sia ringraziato Iddio per tuo fratello, pensai.
"Molto bene. Sì. L'arte nasce quando una persona che sa disegnare passa da
questo", indicai il secondo disegno "a questo". Indicai il
terzo. "Quando si interpreta, quando si guarda il mondo coi propri occhi. C'è
arte quando l'oggetto che viene visto si mescola all'interiorità della persona
che lo vede. Se ne risulta un modo nuovo e entusiasmante di vedere un vecchio
oggetto, be', è interessante, non vi pare? Lì comincia l'arte seria. Ecco,
adesso vi mostro cosa intendo".
Cancellai gli arieti. Per un istante osservai
attentamente la signorina Sullivan: zigomi alti, naso diritto e sottile, viso
ovale, occhi scuri, capelli scuri raccolti in uno chignon. "Questi sono i
tre modi diversi in cui tre grandi artisti moderni avrebbero visto e disegnato
la stessa persona. Il primo si chiama Matisse".
Scrissi il suo nome sulla lavagna. Sopra il nome,
con una linea continua di gesso azzurro, disegnai il volto della signorina
Sullivan.
Sgorgò, immediatamente riconoscibile, dal gesso
sulla lavagna. Tutta la classe si agitò, mormorando di sorpresa nel
riconoscerla.
"Il secondo artista si chiama
Modigliani".
Scrissi il nome alla lavagna e con il gesso rosso
disegnai il volto della signorina Sullivan, il collo lungo, dei zigomi esageratamente
alti e gli occhi a mandorla, sottolineando nella cilindricità del collo il
fascino e la raffinatezza che avvertivo nei suoi modi. "Il terzo artista è
Picasso. Quanti di voi hanno sentito parlare di Picasso?". Le mani si
alzarono. "Bene. Quasi quanti hanno sentito parlare di Asher Lev".
Rav Greenspan si unì alla risata generale.
Scrissi il nome dello Spagnolo alla lavagna e
disegnai la signorina Sullivan con l'ocra, come un tempo lui aveva dipinto
Gertrude Stein: solida, scolpita, iberica, una creatura di pietra più che di
carne, ma con occhi che penetravano il futuro più lontano.
Da sopra la spalla vidi che la signorina Sullivan
fissava il disegno a bocca aperta.
"E' stata lei a volermi qui, signorina
Sullivan. Il potere dell'arte, signorina Sullivan. Sulle sue giovani, belle
carni..." (...)
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