Cechov L’UOMO NELL’ASTUCCIO (…) E Bèlikov? Andava da Kovalènko come veniva da noi. Arrivava
là; si sedeva, non diceva una parola. Taceva, e Vàrenka gli cantava I
venti muggono. Oppure lo guardava coi suoi occhi neri, scoppiando poi,
improvvisamente, a ridere. Nelle
cose d'amore, e particolarmente nel matrimonio, la suggestione ha una parte
importante. Tutti i colleghi e le signore fecero a gara per convincere Bèlikov
che doveva sposarsi, e che non gli restava se non questo da fare nella sua
vita. Noi lo felicitavamo tutti, gli dicevamo molto seriamente ogni sorta di
banalità: gli dicevamo, per esempio, che il matrimonio è una cosa seria;
Vàrenka, inoltre, era carina, interessante, era figlia di un consigliere di
Stato, e aveva una fattoria. Soprattutto, essa era la prima donna che gli
avesse dimostrato della tenerezza e della bontà. Egli
perdette la testa e decise che, infatti, doveva sposarsi. «Sarebbe
stato questo il momento giusto,» disse Ivàn Ivànic, «per portargli via le
soprascarpe e il parapioggia.» Immaginate
facilmente che si trattava di cosa impossibile. Collocò sul suo tavolo la
fotografia di Vàrenka, e venendo da me non faceva altro che parlarmi di lei e
della vita di famiglia, dicendomi che il matrimonio è una cosa seria. Andava
spesso da Kovalènko; non mutava però in nulla il suo genere di vita. Al
contrario, la risoluzione di sposarsi produsse su di lui un effetto
increscioso: dimagrì, diventò pallido, fu come se sprofondasse di più dentro il
suo astuccio. ‹Wàrenka
mi piace,› mi diceva con un debole sorrisetto confuso, ‹e so che ognuno ha da
prender moglie, ma... Tutto questo è accaduto così in fretta, lo sapete...
Bisogna riflettere.› ‹Riflettere
a che?› gli chiesi. ‹Sposatevi, ecco tutto!› ‹No,
il matrimonio è una cosa seria. Occorre anzitutto considerarne gli obblighi, le
responsabilità... Purché in seguito non succeda nulla. Ciò mi tormenta
talmente, che nemmeno dormo più la notte. E, lo confesso, ho paura. Lei e suo
fratello hanno strani modi di pensare: ragionano stranamente: e lei ha un
carattere molto vivo. Sposarla, e dopo capitar male...› «E si
riproponeva di continuo la stessa questione, a dispetto della moglie del
preside e di tutte le nostre signore. Pensava e soppesava gli obblighi e le
responsabilità; tuttavia andava a passeggio quasi ogni giorno con Vàrenka,
forse supponendo che nella sua situazione fosse necessario. Veniva a parlarmi
della vita di famiglia: avrebbe fatto, secondo ogni probabilità, la sua formale
domanda e contratto uno di quei matrimoni inutili e sciocchi, come da noi fanno
migliaia di persone, per effetto di ozio e di noia, se a un tratto, non fosse
venuto a scoppiare un kolossalischer Skandal. Occorre
dire che il fratello di Vàrenka aveva sin dal primo giorno preso in odio
Bèlikov: non poteva vederlo. ‹Non
capisco,› ci diceva alzando le spalle, ‹come voi sopportiate questo tipo di
spione, quest'individuo ripugnante! Ah, signori, come potete vivere qui, in
un'atmosfera così soffocante, così disgustosa? Ma siete davvero dei professori,
dei maestri? Siete dei burocrati striscianti, e la vostra scuola non è un
tempio della scienza, ma un ufficio di polizia; vi si sente tanfo di chiuso
come in un corpo di guardia. No, colleghi cari, io resterò qui ancora un po' di
tempo e dopo mi ritirerò nella mia fattoria; me ne andrò a pescare i gamberi e
a istruire i ragazzi ucraini. Me ne andrò, e voi resterete qui col vostro
Giuda! Crepi.› Rideva
forte, rideva sino alle lacrime, con un riso stridulo e acuto. Mi domandava
spalancando le braccia: ‹O che avrà da venire a casa mia? Cosa vuole? Resta là
seduto, a guardarmi...›. Kovalènko
aveva trovato un soprannome a Bèlikov, lo chiamava in ucraino ‹la ragnatela. Non so
chi fu quello spirito bizzarro che fece una caricatura di Bèlikov con le
soprascarpe, i pantaloni rimboccati, l'ombrello aperto, a braccetto di Vàrenka,
e sotto la scritta: ‹Antropos innamorato›. La somiglianza era, ve lo assicuro,
sorprendente. Scommetto che l'artista ci aveva lavorato per più di una notte,
poiché tutti gli insegnanti del ginnasio maschile e femminile, e anche gli
impiegati, ne ricevettero una copia. Anche Bèlikov ebbe la sua e la caricatura
produsse su di lui la più tremenda impressione. Una domenica, primo maggio,
uscimmo insieme di casa perché avevamo convenuto, tra professori e alunni, di
ritrovarci vicino al liceo per andare insieme nei boschi. Bèlikov era verde, e
più cupo di una nuvola burrascosa. ‹Come
la gente è malvagia, perfida!› disse con le labbra tremanti. Mi
fece addirittura pietà. D'improvviso, figuratevi, mentre si camminava, arriva
in bicicletta Kovalènko e dietro lui sua sorella, pure in bicicletta: stanca,
rossa, ilare, soddisfatta. ‹Noi
andiamo avanti,› gridò, ‹fa così bel tempo, così bello da non credere!› E
tutt'e due scomparvero. Da verde che era, il mio Bèlikov diventò bianco: pareva
pietrificato. Si ferma e mi guarda. ‹Scusate,›
mi disse, ‹che è dunque? O forse travedo? Credete che sia decente, per dei
professori e delle donne, andare in bicicletta?› ‹E che
c'è di indecente?› domandai. ‹Se ne vadano come a loro garba.› ‹Ma è
possibile...› esclamò stupefatto della mia calma. ‹Cosa avete detto?› E
rimase talmente stordito da non voler più andare innanzi; rientrò a casa sua. Il
giorno dopo, tutto tremante, si stropicciava le mani nervosamente e senza posa:
gli si leggeva in viso che stava male. Lasciò la sua classe, cosa che non gli
era mai accaduta in tutta la vita; non pranzò, e verso sera si mise dei panni
pesanti, benché fosse estate, e si avviò lentamente dai Kovalènko. Vàrenka era
uscita e suo fratello era solo. ‹Prego,
sedete,› disse Kovalènko, con freddezza e col viso accigliato. Pareva
avesse sonno: aveva fatto la siesta dopo colazione ed era di cattivo umore.
Bèlikov, dopo alcuni di minuti di silenzio, cominciò: ‹Vengo
a dirvi quel che mi sta sul cuore e mi pesa: un umorista mi ha voluto disegnare
in un aspetto ridicolo, con una persona che ci è vicina, a voi e a me. Tengo a
dirvi che io non c'entro per nulla... Non ho dato nessun pretesto a simile
canzonatura; anzi, al contrario, mi sono sempre condotto irreprensibilmente,
come deve fare ogni uomo dabbene.› Kovalènko
restò seduto, imbronciato e silenzioso. Bèlikov attese un poco, e riprese poi,
piano, con voce triste: ‹E ho
anche qualche altra cosa da dirvi: sono professore da lungo tempo, mentre voi
siete appena agli inizi, e in quanto più anziano di voi credo dovervi dare un
avvertimento. Andare in bicicletta è una distrazione del tutto sconveniente,
per un educatore dei giovani.› ‹E
perché?› chiese Kovalènko, con la sua voce di basso. ‹Forse
che occorre una spiegazione? Non è facile capirlo? Se il maestro va in
bicicletta, che rimane da fare agli scolari? Non resta loro altro che camminare
sulla testa. E dal momento che ciò non è autorizzato da una circolare, è chiaro
che non è permesso. Ieri mi sono spaventato: quando vidi vostra sorella non
credevo ai miei occhi. Una donna, una signorina in velocipede! orribile!› ‹Insomma,
cosa volete?› ‹Non
desidero che una cosa: avvertirvi. Siete giovane, avete l'avvenire dinanzi a
voi, dovete comportarvi con molta, molta prudenza. Vi prendete troppa libertà!
Oh, se ve ne prendete! Portate delle camicie ricamate, circolate di continuo in
città tenendo non si sa che libri; e adesso, in velocipede! Il preside saprà
che voi e vostra sorella andate in bicicletta e ciò arriverà sino agli orecchi
del provveditore... Non ne verrà nulla di buono!› |