La guerra dei
bottoni Louis
Pergaud Il lunedì
mattino in classe andò male, peggio ancora che il sabato. Camus, costretto da papà Simon a ripetere,
alla lezione di educazione civica, quel che gli era stato propinato due giorni
prima sul ‘cittadino’, si attirò invettive non certo piacevoli. Niente voleva uscire dalle sue labbra, e il
volto esprimeva un travaglio di gestazione intellettuale spaventosamente
doloroso; come se avesse il cervello paralizzato. “Cittadino! cittadino!” pensavano gli altri
non meno intontiti. “Cosa mai può essere questa stupidata?” «Io, signore!» fece La Crique facendo
schioccare l’indice e il medio contro il pollice. «No, non tu!» e, rivolgendosi a Camus, ancora
in piedi, con la testa che gli ciondolava e gli occhi smarriti: «Sicché non sai
che cosa sia un cittadino?» «?...» «Stasera vi affibbio a tutti un’ora di
consegna!» Brividi di gelo percorsero tutte le schiene. «Ma insomma, tu sei un cittadino?» domandò il
maestro che voleva a ogni costo una risposta.
«Sissignore!» rispose Camus, ricordandosi di aver assistito con suo
padre a una riunione elettorale nel corso della quale il signor marchese, il
deputato, offriva da bere ai suoi elettori e stringeva loro la mano, e
ricordando anche di avergli sentito dire a suo padre: «È suo figlio, questo
cittadino? Ha una faccia intelligente.»
«Sicché tu saresti un cittadino? Tu!» tuonò l’altro, paonazzo dall’ira.
«Ah, sei proprio un bel cittadino! Un cittadino esemplare!» «Nossignore,» disse Camus che, in fondo, non
teneva poi molto a questo titolo.» «E
perché non sei un cittadino?»
«?...» «Digli,» borbottò tra i
denti La Crique, che si era un po’ stufato, «che è perché non ci hai ancora la
barbetta da capra come lui!» «Cosa stai
dicendo, La Crique?» «Io... io dico
che... che...» «Che cosa?» «Che è perché
è troppo giovane.» «Oh, finalmente. E
allora, ci siete arrivati?» C’erano
arrivati. La risposta di La Crique esercitò sul campo inaridito della loro
memoria il benefico effetto di una rugiada; brandelli di frasi, frammenti di
requisiti, rottami di cittadino si raccomodavano e si rinsaldavano a poco a
poco, e persino Camus, un po’ meno sbalordito e tuttora intento a ringraziare
calorosamente con tutta la sua persona il salvatore La Crique, contribuì a
ricostruire la figura del cittadino.
Insomma, l’avevano scampata bella.
Ma quando si arrivò alla correzione del compito sul sistema metrico, non
ci fu più niente da ridere. Due giorni prima, preoccupati come erano, avevano
dimenticato, copiando, di cambiare qualche parola e di fare quel numero di
errori d’ortografia corrispondenti press’a poco alla loro rispettiva competenza
in materia, che veniva matematicamente soppesata nei dettati bisettimanali.
Avevano solo saltato qualche parola, messo delle maiuscole dove non ci volevano
e sparso i segni di punteggiatura senza minimamente badare che avessero un
qualche significato. Particolarmente deplorevole era l’esercizio di Lebrac che
risentiva evidentemente delle sue gravi preoccupazioni di capo. Fu dunque lui che venne chiamato alla lavagna
da papà Simon, nuovamente paonazzo di collera, con gli occhi che gli
luccicavano dietro gli occhiali come le pupille di un gatto nella notte. Lebrac, come del resto tutti i suoi compagni,
era stato riconosciuto colpevole d’aver copiato: era evidente, non c’era il
minimo dubbio per nessuno, sarebbe stato del tutto inutile negare; ma si voleva
sapere se per lo meno aveva saputo trarre qualche frutto da questa impresa
considerata assolutamente illegale da tutti i teorici della pedagogia
moderna. «Che cos’è il metro,
Lebrac?» «?...» «Che cos’è il sistema metrico?» «?...»
«Come si è ottenuta la lunghezza del metro?» «Ehm!»
Troppo lontano da La Crique, Lebrac, con le orecchie tese e la fronte spaventosamente
corrugata, sudava sangue e acqua per richiamare alla mente qualche vaga nozione
che avesse a che vedere con la faccenda. Infine si ricordò confusamente, molto
confusamente, due nomi propri, Delambre e La Condamine, famosi misuratori di
frammenti di meridiano. Ma purtroppo, nella sua mente, i due nomi si erano
deplorevolmente confusi. Azzardò
pertanto, con tutta l’esitazione di rigore in un momento così grave: «È
stato... è stato Bambon... si, Bambon!»
«Eh? Chi? Come?» fece papà Simon al colmo dell’ira. «Adesso ti metti
anche a insultare gli scienziati? Hai proprio una bella faccia tosta; ti faccio
i miei complimenti, ragazzo mio!» «E
sì,» aggiunse per dare il colpo di grazia a quello sciagurato, «e sì che tuo
padre mi aveva raccomandato di tenerti d’occhio!» «A casa a quanto pare non ti considerano un
grande stinco di santo; invece di pensare a sgranchirti il cervello te ne stai
sempre in giro a fare lo scioperato, il vagabondo, il mascalzone.» «Ebbene, ragazzo mio, se alle undici non
saprai ripetermi tutto ciò che adesso tornerò a dire per te e per i tuoi
compagni, che non valgono certo molto di più, t’avverto che, tanto per
cominciare, vi terrò dentro tutte le sere dalle quattro alle sei, finché non vi
deciderete a rigar dritto. Capito?» Se
su quell’assemblea si fosse abbattuto il fulmine di Giove, non avrebbe
provocato uno sbigottimento più grande. Tutti rimasero annientati dalla
spaventosa minaccia. Così Lebrac e gli
altri, dal più grande al più piccolo, ascoltarono quel giorno con estrema
attenzione le parole del maestro che spiegava irosamente gli inconvenienti
degli antichi sistemi di pesi e misure e la necessità di un sistema unico. |