frecciainter38

Lunario dei giorni di scuola


Trentottesima settimana intermezzo

inter30

La penna rossa
Marino Moretti

Nella valletta dei Tre Fiumi, allo sbocco di Ronta, e cioè nel cuore di quel Mugello che aveva dato a Firenze alcuni dei suoi artisti migliori, a cominciare da Giotto, e i suoi grandi Medici, la scuoletta della ben nota Lara Guidacci - altra maestrina della penna rossa - risuonava ancora dopo dieci anni, come un alveare.
Erano dunque passati dieci anni scolastici e la penna rossa restava al suo posto come insegna d'un modesto cappello, se non come l'inestinguibile fiamma d'una vocazione o disposizione d'animo di cui aveva ormai avuto notizia l'intero Mugello press'a poco come dell'incontro di Giotto con Cimabue, non lungi dalla Torre di Romagnano. E bisogna pur dire che da quelle parti nessuna maestrina mai aveva portato cappello bastando, per gran parte dell'anno, recarsi alla scuola molto alla buona, in capelli. Ma lei s'era modellata fin da principio su una delle maestrine del Cuore e precisamente su quella dalla penna rossa, riuscendo nei primissimi tempi ad aver anche il viso color di rosa, com'era detto nel libro, e le pozzette alle guance, le famose pozzette; più - si capisce - la penna rossa e la crocetta di vetro giallo appesa al collo, com'era detto nel libro per il più felice di quei ritrattini.
In verità, lei s'era dedicata alla scuola, oltre che al libro che dalla stessa era nato, perché la sorte la voleva mamma di tanti bambini (tutti gli anni si rinnovavano) e non di uno solo.
Altre ragazze della sua condizione si facevano allora suore o anche solo maestrine per una delusione amorosa. Lei si sarebbe vergognata d'ammettere codesto, tanto più che non aveva nulla da rimproverare ai giovanotti di quelle parti, salvo forse uno, certo Stefano di Vicchio, che doveva mancarle di rispetto in un modo così impreveduto che l'aveva insieme costernata e compiaciuta (due sentimenti non ben mescolati se il secondo doveva in seguito prevalere); parendole che soltanto da questi eccessi di confidenza molto simili alla sguaiataggine cavalleresca potesse nascere qualcosa di durevole come la simpatia e la propensione amorosa.
Disgraziatamente il giorno dopo quel bel tipo le aveva chiesto scusa dando la colpa della sua "imprudenza " a un bicchier di vino bevuto di troppo. Non s'era accorto insomma che una giovane donna non voleva altro da lui, pur deplorando come educatrice la zotichezza dei bellimbusti di campagna. Così quel tanghero con la sua sciocca idea di resipiscenza, aveva fatto l'infelicità della maestrina dei Tre Fiumi.
S'era poi messa, la Guidacci, il cuore in pace continuando ad amare il suo libro per ragazzi con una sorta di fedeltà che somigliava alla fedeltà del sentimento verso le persone care o verso l'ingenuo passato: solo che se allora lo aveva preferito da scolaretta, ora lo amava come maestrina. E continuava a pensarne l'autore come "il più cordiale e affabile dei nostri moderni scrittori" e magari "il primo di tutti", allo stesso modo che, nel libro, il primo della classe era quel simpaticone di Derossi: e quasi quasi più come Derossi che come De Amicis. Quando poi aveva saputo dai giornali che a Torino s'era festeggiata la trecentomillesima copia del libro con un banchetto, lei avrebbe voluto mandare un telegramma firmato "maestrina penna rossa".
E così avrebbe voluto confessare a qualcuno che codesto Cuore era addirittura il suo piccolo vangelo; per tante e tante ragioni, ma anche e sopra tutto perché un giovane dei dintorni, uno di San Piero a Sieve (non avrebbe mai detto di dove veramente proveniva, proprio di più vicino, da Vicchio) dapprima le aveva mancato di rispetto, poi... poi, ecco, non era saputo andare più oltre nell'irta strada della maschia soperchieria. (...)
Votarsi a De Amicis - il primo scrittore d'Italia era stato per lei come votarsi al pulzellaggio, e non le pareva davvero d'essersi sacrificata, anche se l'idea del celibato di lui avesse insinuato di tratto in tratto qualche asprigna dolcezza. Vero è che i suoi piccoli mugellesi della valletta dei Tre Fiumi la consolavano presto di tutto. Quest'anno poi ne aveva giusti quarantaquattro e il numero, per quanto esagerato, le piaceva straordinariamente perché erano proprio quarantaquattro - non uno di più non uno di meno - i ragazzi che componevano la scolaresca di cui si faceva la storia nel Cuore. Perciò forse la maestrina della penna rossa era sempre alla ricerca d'analogie.
C'era poi nella sua terza un solido torello dalle spalle larghe e dalla testa grossa come Garrone, c'erano i capelli rossi di Crotti, non mancava il berretto di pelo di gatto del bravo Coretti e neppure il muso di lepre del muratorino, né la giacca troppo lunga del figliolo del fabbro ferraio: non si trovava tuttavia qualcuno da potersi paragonare al piccolo Nelli ch'era, purtroppo, un gobbino. Ma si doveva sul serio e per la varietà desiderare proprio in classe un gobbino?
Lei intanto non aveva già più il bel viso color di rosa, color naturale, né le due pozzette alle guance: cioè le guance sfiorite davano tutt'altra espressione a quel visetto ormai stanco, e per il resto s'aiutava qualche volta lei stessa con uno scatolino di cipria rosa, sempre per rendere omaggio al suo autore. Finché un giorno le dicono che il suo autore, il quale era, fra l'altro, anche membro del Consiglio superiore dell'Istruzione, e si fermava volentieri a Firenze di ritorno da Roma, le dicono dunque che da Firenze egli avrebbe fatto un'apparizione in Mugello rinnovando per suo conto il pellegrinaggio del Carducci che in Mugello era stato ospite di Luigi Brilli e della sua illustre compagna, la Poetessa Marianna.
(...) Egli entrò in aula con tre o quattro autorevoli signori del luogo - un modesto seguito in cui si trovava il suo figliolo superstite, l'altro s'era ammazzato e la scolaresca, nella quale erano Garrone e Garoffi, Crotti e Coretti, e il muratorino, scattò in piedi a un gesto risentito della maestrina. La quale poi non fece in tempo a riconoscere l'illustre canizie, i mustacchi bonari, l'ampia fronte luminosa del suo idolo perché, oh Dio, perché restava al fianco di lui Stefano di Vicchio, come se il famoso Capitan Cortese le riportasse per cortesia il suo fidanzato, come se l'autore del Cuore le restituisse il cuore dove era rimasto indelebile nei lunghi anni, l'immagine di lei, della maestrina di ventitré anni.
Sempre lo stesso l'ormai maturo Stefano di Vicchio, nel viso pieno di ragazzone, sebbene ingrassato, appesantito, solido, quel che si dice un "bell'uomo", espressione che tuttavia invecchia di solito il sopraggiunto di cinque o sei anni, almeno. E non aveva costui nemmen dato la mano alla maestrina, da molt'anni non riveduta, ma per la buona ragione che gli accompagnatori avevano lasciato che il solo a stringere la mano fosse l'ospite insigne; mentre a un più attento esame l'ospite insigne, come sbarazzatosi di colpo della sua aureola di santità letteraria per tornare quel che realmente era, il poco felice viandante al termine del lungo cammino come dell'onesta fatica, appariva in definitiva uomo deluso, oltre che stanco, forse tradito o sacrificato, e sopra tutto d'occhio scrutatore. E questo diceva come un'intelligenza esperta d'ogni ripostiglio del cuore umano - ma sottaciuta - facesse la bonomia di lui armata press'a poco come il malanimo.
Intanto egli confessava alla signorina la sua curiosità per questi piccoli virtuosi della pronunzia accennando agli scolari dei primi banchi, e al tempo stesso ringraziava i signori che gli procuravano l'emozione della scuoletta mugerese dando il maggior merito a chi gli era stato maggiormente alle costole, Stefano di Vicchio, e che ora si ritraeva confuso, non si sa se per modestia o per fastidio d'esser tirato in ballo.
- Come? non è stato lei a parlarmi per primo della signorina?
- Signore, per la verità...
- Che sia stato lei a dirmi che questa scuola è numerosa come la mia di Torino, che anzi ha lo stesso numero di scolari, o che sia stato un altro, rimasto magari a Firenze, non ha alcuna importanza, vero?
La maestrina aveva capito che l'uomo di Vicchio non s'impegnava e per darsi un contegno ricordò a se stessa una cosa molto gradevole: la penna rossa. Non poteva logicamente tenere il cappello sulla cattedra perché lo storico delle scolaresche ve la riconoscesse. E, d'altra parte, sapeva d'esser toscana solo a metà, e cioè d'esser scesa in Mugello da quelle propaggini di Romagna che appartenevano allora a Firenze, Romagna toscana, e la sua pronunzia non poteva quindi ritenersi impeccabile.
Ma doveva deludere fino a tal punto il grande ospite che cercava la perfezione in via Tornabuoni come ai Tre Fiumi?
Egli apriva intanto un libro di scuola e lo portava gentilmente a uno scolaretto di prima fila, che invitava subito alla lettura, poi si preparava a bearsi e ascoltava a occhi socchiusi. Tutti leggevano splendidamente. Faceva egli notare che codesto modo di leggere era assai più conforme ai modo di parlare, specie nei dialoghi, e sopra tutto nelle interrogazioni, nelle esclamazioni, cui difficilmente san dare il tono gli altri ragazzi. Il modo poi di pronunziare il c davanti all'i - quasi sci - nella parola bacio gli pareva facesse quasi sentire il suono d'un bacio leggero, e la maestrina e Stefano di Vicchio si guardarono per un istante, e quale non fu la sorpresa di lei nel riconoscere che per via del bacio con l'sc lui l'aveva guardata in un altro modo, finalmente longanime, e sorridendo quasi di gratitudine, tanto per lo sguardo istintivo della ragazza non più giovane quanto per la trovata dell'ospite insigne che aveva saputo rompere il ghiaccio. Pareva che da questo punto i due si fossero intesi, convinti ormai l'una e l'altro che il merito spettasse all'uomo del Cuore. Il quale, avendo l'aria di non accorgersi di nulla, traeva dalla tasca che aveva molto capace diversi foglietti su cui aveva scritto a grandi caratteri una serie di strani motti come: "Andò a tòrre la chiave della tórre", "Cominciò a dar bòtte alla bótte", "Accètta in dono questa accétta", e si divertiva a distribuirli ai ragazzi, e più ancora si divertiva quando ciascun lettore dava ad ogni vocale, in ciascun vocabolo, il suo giusto suono senza pensarci sopra un momento. Bocchine fortunate, veramente! Ora provava a far dire un verso di Dante: Con l'ali aperte e ferme al dolce nido, che "noi barbari sogliamo dire dando lo stesso suono largo alla prima e di aperte e all'o di dolce e di nido" (così egli s'era già confidato, sottovoce, all'insegnante che ora restava accanto a quel di Vicchio); e anche questa prova riesce: lo scolaro (è l'apocrifo Crotti) pronunzia strettissime due delle vocali che esigono l'accento acuto, sì che da una piccolissima differenza, secondo codesto orecchio nordico squisito, il verso acquistava un'armonia sensibilmente più varia e molto più delicata.
- In tal modo - concludeva De Amicis con l'aria d'inchinarsi all'insegnante che non ci aveva alcun merito in tal modo, - senza dubbio, pronunziò questo suo verso lo stesso autore Dante Alighieri.
Infine Stefano di Vicchio, come se non stesse in sé dalla gioia e si facesse avanti quasi per sovrapporsi a un De Amicis, prese lui l'iniziativa e ingiunse a uno di quegli scolaretti di pronunziare ad alta voce la frase: "Quando torno a casa, do subito un bàscio alla mamma", non si sapeva se per far cosa grata allo scrittore a cui piaceva tanto sentir pronunziare il c davanti all'i - sci come sciolto - o se per far piacere alla maestrina a cui la parola bacio doveva pur dire, dopo tanti anni, qualcosa. Se non addirittura ch'egli sarebbe tornato a lei, e non c'era nulla di propiziatorio per loro due come la visita deamicisiana alla scuola di codesta valletta dei Tre Fiumi.
E forse costui pensava davvero che il maggiore scrittore italiano favoriva, senza saperlo, la tardiva resipiscenza d'un mugeflese, fedele tuttavia se non aveva pensato di sposarsi altrove; e si poteva sperare d'averlo, il grand'uomo, testimone alle nozze, non si sa mai.
E poiché la maestrina, rimasta lungo gli anni "maestrina", capì come volle capire, fece anche una specie di scarto sotto gli occhi dei visitatori autorevoli, voltò loro per un momento le spalle, aprì lo sportello d'un armadietto accanto alla cattedra, vi pescò il suo cappellino, ne sfilò con uno strattone la penna rossa, tornò indietro e mostrò la penna, con un sorriso giovanile, all'ospite illustre: - Signor De Amicis, la riconosce? la vuole?
De Amicis sorrise e assentì senza stupirsi che quella maestrina - quasi una sua "creazione" - avesse proprio le lacrime agli occhi, e passò al figlio Ugo la penna rossa perché la serbasse fra i cimeli e le cianfrusaglie che gli ricordavano le umane vicende del suo onesto capolavoro.
 










rotusitala@gmail.com


 









rotusitala@gmail.com