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Lunario dei giorni di scuola


Trentesima settimana intermezzo

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Prima i bambini

Toni Morrison

(…)

Anche dopo quindici anni non avrei mai potuto non riconoscerla, non fosse che per l’altezza, almeno un metro e ottanta. Niente ha potuto rimpicciolire la gigantessa che, ricordo, superava l’ufficiale giudiziario, il giudice, gli avvocati e raggiungeva quasi i poliziotti. Solo il marito, orco al pari di lei, era altrettanto alto. Nessuno dubitava che fosse la schifosa depravata che i genitori tremanti di rabbia l’accusavano di essere. «Guardate che occhi», sussurravano. Dovunque, nell’aula del tribunale, nei bagni, sulle panchine allineate nei corridoi, la gente sussurrava: «Freddi, da quella serpe che è». «A vent’anni? Come può una ventenne avere fatto quelle cose a dei bambini?» «Stai scherzando? Guardale gli occhi. Sono vecchi come la terra.» «Il mio bambino non si riprenderà mai.» «Demonio.» «Cagna.» Adesso gli occhi sembrano più quelli di un coniglio che di una serpe, ma la statura è la stessa. Sono cambiate molte altre cose. È magra come un chiodo. Mutandine taglia 1; reggiseno coppa A, a dire tanto. E di sicuro le farebbe bene il mio fondotinta GlamGlo. Il correttore attenuarughe Formalize Wrinkle Softener e poi un bel tocco di fard Juicy Bronze darebbero un po’ di vitalità alla pelle chiara come siero di latte. Quando scendo dalla Jaguar non mi chiedo se mi riconosca, non mi importa. Mi avvicino e le dico: «Serve un passaggio?» Lei mi lancia un’occhiata rapida e indifferente, poi fissa lo sguardo sulla strada. «No.» Le trema la bocca. Un tempo era dura, un rasoio dritto e affilato per fare a pezzi i bambini. Una punturina di Botox e un po’ di Tango-Matte, senza glitter, le avrebbero ammorbidito le labbra e magari avrebbero influenzato la giuria in suo favore, solo che all’epoca non c’era YOU, GIRL. «Viene a prenderla qualcuno?» sorrido. «Taxi», dice. Buffo. Risponde diligente a una sconosciuta come se ci fosse abituata. Non ribatte: «Che te ne importa?» e nemmeno: «Ma tu chi diavolo sei?» invece si spiega meglio. «Ho chiamato un taxi. Anzi, l’hanno chiamato le guardie all’ingresso.» Quando mi avvicino e tendo la mano per toccarle il braccio arriva il taxi e lei, veloce come un proiettile, afferra la maniglia, getta dentro la sua borsa e richiude la portiera. Batto le mani sul finestrino, gridando: «Aspetti, aspetti!» Troppo tardi. L’autista fa inversione neanche fosse un pilota di Nascar. Corro alla mia auto. Non faccio fatica a seguirli. Supero addirittura il taxi per non far capire che le sto alle calcagna. Ma si rivela una mossa sbagliata. Appena sto per imboccare la rampa di accesso, vedo che il taxi mi sfreccia davanti in direzione di Norristown. I sassolini mi schizzano via da sotto le ruote mentre freno bruscamente, faccio inversione e riprendo a seguirli. La strada per Norristown è fiancheggiata da case linde e uniformi costruite negli anni Cinquanta e ingrandite a più riprese: una veranda chiusa, un garage allargato per ospitare due auto, un patio sul retro. Pare il disegno di un bambino: una successione di case azzurre, bianche e gialle, dalle porte verde pino o rosso barbabietola, placidamente adagiate al centro di grandi giardini. Manca giusto un sole tondo come una frittella circondato da una raggiera di trattini. Dopo le case, vicino a un centro commerciale pallido e triste come la birra light, un cartello annuncia l’ingresso nella cittadina. Accanto, svetta un’insegna più grande, quella del motel e ristorante di Eva Dean. Il taxi svolta e si ferma davanti all’entrata. Lei scende e paga l’autista. Io la seguo e mi fermo a una certa distanza, vicino al ristorante. C’è solo un’altra auto nel parcheggio, un SUV nero. Sono sicura che debba incontrarsi con qualcuno, ma dopo qualche minuto al banco dell’accoglienza clienti lei va dritta al ristorante e si accomoda di fianco alla vetrata. La vedo chiaramente e la osservo mentre studia il menu come una ripetente o una scolara non madrelingua: muove le labbra mentre legge, segue le lettere con il dito. Che cambiamento. Questa è la maestra che faceva affettare le mele ai bambini della materna per formare la lettera O, che usava i brezel come esempio di una B e sagomava le Y con pezzi d’anguria. Il tutto per comporre la parola BOY – perché erano i maschietti a piacerle soprattutto, a sentire le donne che sussurravano davanti ai lavandini nel bagno delle signore. La frutta usata come esca era stata menzionata più volte nelle testimonianze al processo. Guardate come mangia. La cameriera continua a metterle davanti un piatto dopo l’altro. Ha un suo senso, in fondo, questo primo pasto fuori dalla prigione. Divora tutto come un rifugiato, come un naufrago disperso in mare per settimane senza cibo né acqua, e giunto quasi al punto di chiedersi che male potrebbe fare al suo compagno di scialuppa moribondo se assaggiasse la sua carne prima che si rinsecchisse. Non distoglie mai lo sguardo dal cibo; infilza, taglia, affonda il cucchiaio con voracità tra i piatti. Non beve acqua, non imburra il pane, come se la sua abbuffata non tollerasse ritardi. Finisce tutto in dieci, dodici minuti. Quindi paga, esce e si avvia in fretta lungo il vialetto. E adesso? La chiave in mano, la borsa sulla spalla, si ferma e si infila nel varco tra due pareti a stucco. Scendo dall’auto e le corricchio dietro finché non sento il rumore dei conati di vomito. Allora mi nascondo dietro il SUV finché non esce. 3-A, c’è scritto sulla porta che apre. Sono pronta. Cerco di bussare in modo autorevole, forte ma non minaccioso. «Sì?» Le trema la voce, il suono umile di una persona addestrata all’obbedienza automatica. «Mrs Huxley. Apra la porta, per favore.» C’è un silenzio, poi: «Io, ecco… Non sto tanto bene». «Lo so», dico. Un’ombra di rimprovero nella voce, con la speranza di farle pensare che io sia qui per lo sporco che ha lasciato a terra. «Apra la porta.» Lei apre e resta ferma sulla soglia a piedi nudi, stringendo un asciugamano. Si pulisce la bocca. «Sì?» «Dobbiamo parlare.» «Parlare?» Batte rapidamente le palpebre ma non pone la vera domanda: «Lei chi è?» La costringo a scostarsi per lasciarmi passare, tenendo la borsa di Louis Vuitton davanti a me. «Lei è Sofia Huxley, vero?» Annuisce. Negli occhi le passa un lampo di paura. Io sono nera come la mezzanotte e vestita tutta di bianco, quindi forse pensa che sia una divisa e che io sia una qualche autorità. Voglio tranquillizzarla, perciò sollevo la borsa e dico: «Venga. Sediamoci. Ho qualcosa per lei». Sofia non guarda la borsa e nemmeno la mia faccia; mi fissa le scarpe, pericolosamente appuntite, dai letali tacchi a spillo. «Cosa vuole che faccia?» mi chiede. Che voce dolce, accomodante. Consapevole, dopo quindici anni dietro le sbarre, che nulla è gratis. Nessuno regala niente senza contropartita, mai. Qualsiasi cosa – sigarette, riviste, assorbenti interni, francobolli, barrette Mars o un vasetto di burro d’arachidi – è sempre accompagnata da condizioni capestro. «Niente. Non voglio che lei faccia proprio niente.» Ora gli occhi vagano dalle mie scarpe alla mia faccia, occhi opachi privi di curiosità. E così rispondo alla domanda che avrebbe posto una persona normale. «L’ho vista mentre usciva da Decagon. Non c’era nessuno ad aspettarla. Le ho offerto un passaggio.» «Era lei?» Fa una smorfia. «Io. Sì.» «La conosco?» «Mi chiamo Bride.» Lei strizza gli occhi. «Dovrebbe dirmi qualcosa?» «No», rispondo, e sorrido. «Guardi cosa le ho portato.» Non so resistere e appoggio la borsa sul letto. Cerco all’interno e poso due buste sopra la confezione omaggio di YOU, GIRL: una sottile con il buono regalo della compagnia aerea e una più spessa con i cinquemila dollari. Circa duecento dollari per ogni anno, se avesse scontato appieno la condanna. Sofia fissa gli oggetti che le ho messo davanti come fossero infetti. «Cos’è tutta quella roba?» Mi chiedo se la prigione non le abbia rovinato il cervello. «Non si preoccupi», dico. «Sono solo alcune cose per aiutarla.» «Aiutarmi a far che?» «A partire con il piede giusto. Intendo nella sua vita.» «Nella mia vita?» C’è qualcosa che non va. È come se da sola non arrivasse a capire il senso di questa parola. «Sì.» Continuo a sorridere. «Nella sua nuova vita.» «Perché? Chi la manda?» Sembra interessata, adesso, non impaurita. «Immagino che non si ricordi di me.» Mi stringo nelle spalle. «E perché dovrebbe? Lula Ann. Lula Ann Bridewell. Al processo? Ero tra i bambini che…» Mi frugo con la lingua nella bocca piena di sangue. I denti ci sono tutti, ma non riesco ad alzarmi. Sento che la palpebra sinistra si sta chiudendo e il braccio destro è come morto. La porta si apre e tutti i regali che ho portato mi vengono gettati addosso, l’uno dopo l’altro, compresa la borsa di Vuitton.



















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