frecciainter28

Lunario dei giorni di scuola


Ventottesima settimana intermezzo

inter28g


LA MAESTRINA D'INGLESE

Carlo Dossi

 

 

I

 Tanto per cominciare

 È una pìccola stanza. Serve, con vece alterna, e da sala da pranzo e da vìsite, e, si potrebbe anche dire, da càmera a letto, chè i due sofà mi han punto l'aria di restar sempre sofà. Tègoli troppi si vèggono fuori, per crèderci bassi di piani; troppa poca mobilia dentro, per crèderci alti di fondi.

Squillo di campanello. Il campanello sussulta nella stanzetta; che la sia pure anticàmera?

E al suono, una ragazza gentile si presenta a una porta, e leggera leggera corre a dischiùderne un'altra. Ed ecco un bel giòvane biondo, alto, entrare, e tosto pigliarle con trasporto le palme.

— E il pappà? — chied'egli di sottovoce.

Aurora muove la graziosa testina tristissimamente.

— Ma il dottore, che dice?

— Dice: vi è un sol rimedio… morire. —

Aurora ha nel parlare la più adoràbile erre del mondo. Ma, oè, signore lettrici, non vi sforzate a erreggiare; un rossetto e un bianchetto, come Natura dà, nel profumiere non troverete mai.

I due bei giòvani stanno zitti, mani con mani, sguardo con sguardo.

— Aurora! — geme una voce dalla stanza vicina.

La fanciulla si scuote, scioglie le sue dalle mani di Enrico, che con passione le preme, e accorre a chi chiama.

Enrico ode la voce dell'ammalato, diventando agra e stizzosa, dire alla figlia che lo si abbandona, che lo si lascia morire, anzi! che lo si desìdera morto… E Aurora, giù a piàngere.

              — Oh l'egoista! — fà il giovanotto fra i denti, e sospira.

 

II

 Patria potèstas

 Per verità, tutti siamo egoisti. La differenza stà solo nei mezzi di soddisfare a tale suìsmo, i quali, chi ha lunga veduta, trova nella beneficenza; non sentendo, vo' dire, felicità seco, fà in modo che quella ch'egli procura agli altri lo illùmini di riflesso; chi breve, crede cavare dal male, fomentato in altrùi, un lenimento al suo; dal che, tòccano-via quelle due razze di uòmini; una, gaja, ridente, che dispicca le rose coltivate da lei; l'altra, immusonita, instizzita, la quale si punge alle ortiche che seminò. Oh il cielo ne guardi, in quest'ùltimo caso, dai vecchi! La gotta costrìngeli su un seggiolone? come diàvolo il mondo ha ancor baldanza di mòversi? — Perdèttero i denti? màngino tutti la pappa — Incendi Roma, pur che si cuoca il lor ovo… E, per disgrazia, il padre di Aurora — dico disgrazia e di lei e sua propria — apparteneva a costoro.

Al doppio egoista di una sediòla ad un posto, il signor Pietro Morelli non èrasi maritato, che a procurarsi una serva e un materasso da botte, nè avèa messo insieme una figlia se non a preparàrsene un'altra, per quando la prima sarebbe andata fuor d'uso.

Un tiranno, già, suppone un pòpol minchione; e il signor Pietro si era ben scelto il suo pòpolo. Imaginate, che la donna di lui — di quelle pòvere ànime, prive di volontà o senza il coraggio di averne, ànime nate ad ingloriosi martìri — curva sotto il trìplice peso della fatica, della mala salute e della continua ingiuria, usava, a sua maggiore querela, il sospiro; poi, stracca, frusta, avéa, per la paura di contrariare il marito, aspettato e còlto a riposar tra quattr'assi, giusto il momento che la figliuola giungesse a imbracciare da sola il sopràbito al babbo. E Aurora, ànima anch'essa timida e per natura e abitùdine, avèa accettata la successione di mamma, tal quale.

Ma di lì a poco, il signor padre o padrone, preso da un mezzo accidente, perdeva le gambe e l'impiego. Cangiò egli allora di tàttica. Il signor Pietro, adesso, aveva bisogno di ajuto, e veramente bisogno, per non èsser più in grado di obbligare gli altri a prestàrgliene: il signor Pietro era vile; credeva che dell'amor della figlia, sebbene (tra noi) potesse stare al sicuro, ci fosse poco a fidarsi; dunque dièdesi a fare la vittima, a piàngere, a lamentarsi. E la buonìssima Aurora, la quale, a dispetto di ogni rabuffo e d'ogni broncio di lui, l'avrebbe servito a ginocchi, ora ch'ei supplicava, pensate!

Sottile sottile era la pensione sua. Aurora, vogliosa che nel bicchiere di babbo rosseggiàssene sempre del buono, saltò su a dire:

— Darò lezioni d'inglese —

Il signor Pietro fissolla con dubitoso stupore.

— E sai l'inglese… tu? — disse.

— Sì — ella fece timidamente — da un pezzo. Me l'ha insegnato la mia maestra Racheli… Pappà, scusa! — e aggiunse, che la detta maestra, la quale amàvala molto, le offriva…

— No — interruppe il pappà, gentile come un chirurgo.

E tàquero entrambi. No, avvertite, era la sua risposta abituale; sentiva, nel proferirla, uno strano piacere. Vero è, che dovèa poi scèndere al sì, ma pel momento era no.

Pur, questa volta, il diniego stette. Sospettoso come un topo frugato, il signor Pietro pensava che le lezioni d'inglese d'Aurora, se non èrano già, potèvano convertirsi in tanti spedienti per istargli alla larga. Aurora gli avrebbe dato ad intèndere ogni sorta di storie; ed egli, inchiodato su'na poltrona, con la finestra che non vedeva che gatti, avrebbe dovuto, o bene o male, inghiottirle.. No, no; egli s'amareggiava fin troppo quand'ella, per la poca provvista, era fuori.

Così passò un anno; muro a muro la vita. Tutto, men la pensione, aumentava; ed il Governo, giù imposte! chè, quasi fosse una vigna il paese, credeva arricchirsi l'impoverendo.

Tornò il dare lezioni d'inglese a far capolino. Aurora disse che la sua vecchia maestra avèala cerca per una brava signora e, acconsentendo pappà…

— No — rispose, secondo il suo vezzo, quella delizia di padre. Pure soggiunse: — la vuol proprio imparare? ben, venga quì.

— Oh babbo! — sclamò la fanciulla con un ghignuzzo — chi può èssere quello che fà dieci scale per una lezione d'inglese? —

Sul che, il signor Pietro si degnò di riflèttere. 'Stavolta, il suo falso-egoismo se ne trovava di fronte altrettanto: lì si trattava di scègliere tra un po' più di minestra o un po' più di figliuola: e il signor Pietro, forse in quella a digiuno, si attenne al “po' più di minestra.”

Ma tuttavìa, volle e pretese un mucchio d'informazioni: dopo, impòsene uno di condizioni. Ed eccolo, mentre Aurora è lontana, atteso con l'occhio alla lancetta del pèndolo, la quale ha trascorso l'ora fissata… Inquieto, egli manda e rimanda la ragazzina che gli tien compagnìa, sul pianeròttolo… E pàssano altri dieci minuti… Perchè non torna? che fà?

Aurora entra pressosa, anelante.

Il signor Pietro, senza lasciar ch'ella dica, comincia a bajare come un can da pagliajo. Ed essa, alla prima in bilancia, risponde poi risentita. Egli, allora, fuori il secondo argomento! cioè il moccichino… Dio mio! ingrata figliola! Bianchi capelli! padre ammalato… tanto che, spaurita la tosa, con le perle negli occhi, e il singhiozzo, gli dimanda perdono.

Poi, un dì, il signor Pietro, veduto apparir la fanciulla con un mazzetto di fiori, si cacciò in testa che gliel avèsser donato.

— È per tè — ella disse e lo porse — l'ho comperato per tè — aggiunse, avvertendo alla nuvolosa aria del padre.

Ma — in segno di grazie — questi lo getta per terra. E fà “tu hai arrossito”; quindi, una scena d'ira e di pianto, il ricordo di cui, le làgrime molte di Aurora, èbbero pena, assài pena a lavare.

O è vero ch'ella avèa arrossito?

Sì… vero, che il mazzolino era un dono?

No…

Ma perchè io meglio mi spieghi, e voi men male intendiate, prenderò il fazzoletto per un capo diverso.

 

III

 Enrico San-Giorgio scopre la Terra promessa

 
Enrico San-Giorgio era dal suo quinquennale viaggio rimpatriato. Scàpolo e milionario, fu accolto a braccia aperte dalle mammine, e le figliole èbber licenza di compromèttersi; qualcuna anzi, ingiunzione. E ben si poteva ubbidire; giòvane e bello era Enrico.

Ma!… egli era anche di spìrito, non qualità da marito, sì che, guardàndosi attorno, vìdesi tosto, in mezzo ad amici che gli dicèvano “se' navigato abbastanza”; a babbi che gli narràvano le domèstiche gioje, apprese a colla-di-bocca in su i libri; a mamme — grandi e non grandi — che gli toglièvano il fiato a furia di sesquipedali accoglienze con tanto di fòdera, ora invitàndolo a pranzo, per mètterlo accosto a collegialine pupazze sciocchissimamente belle, ora facèndolo a forza ballare con vèrgini stagionate, pudiche fino allo scàndalo; insomma, vìdesi in mezzo a una tal rete vasta d'intrighi, a tanta roba posticcia, che, stomacato e anche un po' impaurito, risolse fuggire laddove ancor si dormiva beatamente “il greve sonno della barbarie.”

Fermo nel quale partito, Enrico, un dì, soprapensieri passeggiava una via, riandando i paesi già visti e quelli a vedere. Ecchè non andrebbe al Giappone? là, in quella terra da vasi, in cui il mondo è a rovescio, e i nostri non-sensi hanno senso, e le nostre eccezioni son règole? Ei vi potrebbe comprare un bel servizio da tè, poi, tanta curiosa frugaglia — e palle d'avorio cinque-entro-una, e un vestiario di carta, e strani disegni (sogni fotografati) e scarpe di porcellana, piccine… e perchè no? forse coi loro pieducci vivi al didentro, con quel che segue al difuori… — Dunque, al Giappone!… si piglia prima per Suez; si fà il mar Rosso… tocco Ceilan, mi vi provvedo del buon zafferano, torno a imbarcarmi per Singapore e Sciang-hai, vo a Nagasaki, poi a Yokoama, poi, se si può, infilo lo stretto di Kanagava… — Ed egli scorgèa di già i draghi-volanti nella imperiale Jeddo, quando “Oè! la vita, signori! eh!” venne arrestato dalla carriola d'un perecottajo… Maledetta carriola!

Per cui, si trasse di banda contro di una bottega. Era questa di fiori; ci si vedèvano vasi di novellini gerani e garòfani, desìo della pòvera agucchiatrice; vasi di erba amarella, dittamo e ruta, amori della pulcellona; mazzi con il Vidoppio, musco; corone di bianche rose, da far parere più in fiamme la guancia di una vèrgine sposa o pàllida doppiamente quella di una vèrgine morta; ma, il tutto, qual sfondo ad un più splèndido fiore, dico ad una fanciulla, vero occhio di sole, ferma anche lei per la carriola di pere… Oh benedetta carriola!

E la fanciulla avèa uno di que' tai visi, passavìa della tristezza, che fanno belli gli specchi, a colori e a contorno finissimo, dal naso gentilmente aquilino, e cui, gli occhi furbetti e un germe di malizioso ghignuzzo sul destro canto fra i labbri, dàvano il moscadello. Le manine poi, lunghe, sottili, a mezziguanti di filo; una, sul seno come a fermaglio, tenèa raccolto uno scialletto scozzese; l'altra, stringendo un mazzoluccio di viole, scendeva lungo la gonna a mille-righe di bianco e di nero. E, dall'imo di questa, usciva la mascherina di una scarpetta, piccola sì da mèttere il dubbio se avrebbe potuto annidare una tòrtora.

Enrico si sentì il cuore sommosso; capì i suòi viaggi finiti; gli cadde di bocca lo scorcio di sigaro, e:

— Oh il bel mazzetto! — fece.

Allor la fanciulla girò la testa alla voce, infiorando un sorriso; ma, come diede nel giòvane, arrossì tutta e volse lo sguardo al mazzetto, quasi a passargli quel complimento, che, sotto il nome di lui, èrasele volto. Eppòi, lesta lesta, partì. Ed egli, dietro.

 

IV

 Chi può essere quello, che fà dieci scale per una lezione d'inglese

 

Pochi dì dopo “derlin-din-din!” sclamò il campanello di casa Morelli; e la servetta, che corse ad aprire, vedendo un giòvane biondo, svelto, bellìssimo, crede' che entrasse l'Arcàngiolo Raffaele vestito alla moda.

Ned ella gli dimandò che volèa, ned egli l'espresse, chè tutti e due èrano già nella sala, alla presenza del padrone di casa.

Al quale, il nuovo arrivato, fatto un inchino, chiese:

— Ho io l'onore di salutare il signor Pietro Morelli?

— Sì, per servirla — rispose l'infermo, alquanto maravigliato; e, dopo una diffidentissima pàusa — Si accòmodi. —

La servettina portò al forestiere una scranna.

Quello, siedette.

— Mi chiamo Enrico… Giorgini — poi cominciò; e disse, ch'egli era un negoziante di panni, il quale, secco della tarda avviatura de' suòi affari in patria, voleva recarsi in Amèrica… giustamente a New-York… —

Il signor Pietro con un gesto assentì, quasi a dire: — Ma bravo!

— Tuttavia — segui il giovanotto — c'è un male… non conosco la lingua…

— Già; è un male — convenne l'infermo.

— Ora, avèa egli, il Giorgini, in una casa d'amici, udito a parlare di una signora Morelli, maestra d'inglese della contessa Orologi… di cui la contessa era enchantée… —

Quì il signor Pietro rifiutò con la mano la lode, quasi fosse per lui, bah!

— Dunque — conchiuse il Giorgini — prego la signora sua figlia ad accettarmi a scolare; scolare un po' vecchio, ma pieno di buonavoglia, e pregola inoltre di pormi un due ore ogni dì, perchè io passi da lei. —

Il signor Pietro, mentre Enrico diceva, ne masticava una a una le sìllabe; com'ebbe finito, trasse, a prèndersi tempo, il moccichino di tasca, spiegollo, gli cercò ai capi la cifra, e se lo applicò. E, nel soffiàrselo lentissimamente, vide ch'egli poteva a una volta imberciare in tutti e due i bersagli, cioè nel po' più di minestra e nel non men di figliola.

Nondimeno, rispose:

— Aurora, non deve star molto a tornare; ha ella pazienza di attènderla?

— Oh si figuri — fe' Enrico, che meglio non isperava. E attese. E, intanto, discorse di moltìssimo altro col vecchio, il quale, uno trovando che dàvagli in tutto ragione, rimase giulebbe.

— È quà — disse a un tratto l'infermo, additando la porta — La fà l'ùltima scala… —

Enrico sentissi rimescolare; si alzò.

— Stia còmodo! — suggerì il signor Pietro.

Ed ecco, tenendo l'uscio dischiuso la servettina, entrare, con un visetto che ancor più brillava del sòlito, Aurora. La quale, sul primo, scorgendo una persona inusata, sostenne la vispa andatura; poi, raffigurato chi era, ne sobbalzò.

— Il signor Giorgini — disse allora il pappà — vuole imparare l'inglese. Ei chiede se puòi disporre di qualche ora per giorno, e di quali. Verrebbe quì — ed appoggiò la voce sul quì.

— Per mè, sono lìbere tutte — avvertì il giovanotto.

— Potrèi dire anch'io lo stesso — fè, sorridendo e con quel suo monello aggricciare di labbra la tosa; (e dopo una irresoluzione: ) — Alle due? le và? —

Enrico, che la bevèa con gli occhi, e a stenti non con la bocca, fu per rispòndere che tutte le ore passate con lei, dovèano èssere belle — al par di lei, belle — ma si trattenne. Invece, parlò come scolare a maestro; le dimandò se l'inglese fosse una diffìcile lingua, chièsele conto delle più buone grammàtiche, dei libri di prima lettura insomma, cercò di tirare in lungo il collòquio, nè, al certo, lei d'accorciarlo. Oh! senza il babbo per terzo, chissà fin quando avrebbe continuato! Così, dovette finire. Enrico strinse la mano al pappà, poi alla splendente fanciulla. E, da quest'ùltima stretta, il tremore, che naque ai polsi dei due e si propagò per le vene, disse lor cose che avèano poco a che fare con l'Ollendorff e il Millhouse. Molto migliori però.

 

V

 Progressi in inglese

 
Il dì seguente, incominciàrono le lezioni. Non mai fu uno scolare più assiduo di lui, nè una maestra più puntuale di lei. Uno sedèa ad un lato del tàvolo, l'altra all'opposto; tra loro, in sul terzo, impoltronàvasi il babbo; gli occhiali, volti ad un libro; gli occhi, un po' a destra, un po' a manca.

E, dopo due chiàcchiere e sulla salute ed il tempo, aveva principio il dettato. Era curioso il notare com'ella facesse fatica a dir bene, egli a scrivere male. A volte, Enrico sostava a porre una domanda o un dubbio, o meglio, a consolarsi la vista; ed ella gli rispondeva turbata. Turbata? epperchè? perchè forse vedèa che insegnava a un maestro? E, se sì, starsi zitta? a che?

Appresso, si leggeva il dettato; capital punto della lezione. Allora, le due sedie amorose s'avvicinàvano sul quarto lato del tàvolo, cioè in facciatina all'egoista poltrona del babbo, e la bella ragazza, con l'imo di un tagliacarte, apriva la strada ad Enrico, mentre costùi, spesso, si diperdeva a mirare, non la parola, bensì le dita affilate che gliela indicàvano. E la ragazza: su, coraggio, signore; dica. —

— Diàvolo d'un inglese! — borbottava il pappà. Tanto che lo scolare, tirato fuori dall'èstasi, accentuava la ritrosa parola in modo, che, se Aurora gentile fosse stata solo maestra, n'avrebbe fatto tesoro.

A volte poi, e' si sentiva solleticare da un capriccioso riccietto o titillare la guancia all'appressarsi della rasata di lei; ancora un pochino, e si sarèbbero tocche. Serràvali in quella lo smarrimento medèsimo; èrano come ubbriachi; leggèvano macchinalmente o almeno credèano lèggere, chè, davvero, che forloccàssero mai, neppur Centofanti sarebbe riuscito a capire.

Fortuna, che tutto l'inglese del babbo consisteva in beef-steak e roast-beef con la giunta dell'yes!

Ma un dì, usando essi di fare anche un po' di diàlogo:

Whom do you love? — chiese la bella volgèndosi ad Enrico e innamoratamente guardàndolo.

Enrico non tènnesi più.

I love you! — fece con entusiasmo.

La fanciulla arrossò.

Love? che significa love? — disse intorbidàndosi il babbo e strascicando la voce.

E, a botta risposta, Enrico: mangio. —

Il Signor Pietro lampeggiò l'uno, poi l'altra, con un'occhiata tale, che, se le occhiate lasciàssero il segno, quella li avrebbe uccisi di colpo. E, la lezione finita, ed il Giorgini partito, si die' a carteggiare il “Baretti.”

 
       VI

 Malus homo stultus est

 
Ma l'indomani dell'amorosa dichiarazione, Enrico anticipò di qualche ora la sua venuta in casa Morelli, cogliendo giusto il momento che la fanciulla era fuori. Quel dì, Enrico, avèa un aspetto grave, bùrbero, il signor Pietro.

— Ho da parlarle — disse il Giorgini, inchinàndosi al vecchio; e siedette.

— Anch'io — oppose costùi con un sogghigno di tristìssimo augurio.

— Dica — acconsentì il giovanotto.

— No; dica lei — ribattè il signor Pietro.

Dunque, Enrico, piegossi un po' indietro sulla spalliera della sua sedia, passando la mano alla bocca e accarezzàndosi il mento. Forse, avèa apparecchiato un discorso, ma il discorso era ito.

Il babbo di Aurora lo guatava attendendo.

Enrico si stancò di cercare:

— Signore — disse con risoluto cenno di capo — parliamo sgusciato. Io adoro sua figlia e gliela chiedo per sposa. —

Ve', il signor Pietro non mosse pure palpèbra. Ma con calma rispose, calma di temporale però:

— Seppi io jeri, che ella faceva la corte a mia figlia; oggi lei sappia, che, quanto a sposarla, nichts! —

Enrico sentissi le bragia sul viso; pure, si limitò di arricciarsi i mostacchi; e con le belle belline difese la causa sua e di ogni cuore gentile; toccò dell'immenso amore per lei, amore che pareggiava sol quello della ragazza per lui…

Al che, il signor Pietro sbuffava e barbugliava tra le gengive: oh! mèttere in succhio una tosa… scusate se è poco!… già; al taglio come le angurie… chiòh eh!

Poi, Enrico lasciò il tema su amore e parlò numerario; disse, ch'ei non si chiamava Giorgini; sì bene San-Giorgio, dei San-Giorgio di Ponte (che volèa dir milionari) per cui, egli ed Aurora, avrèbbero circondato il lor babbo di tutti gli agi possìbili.

La quale ùltima corda non sonò male al pappà.

— Insomma — finì il giovanotto, pigliando a colùi, con preghiera e speranza, una mano — ella può fare la felicità di noi due.

Bene; questo argomento — chi non vuol crèder non creda — ruinò tutta la càusa. Il falso egoismo susurrò tosto all'infermo, che là ove due si àman da vero, un terzo è di troppo; ch'ei sembrerebbe una pezzuola-cotone, a villani colori, sudicia, in un cassettino di fazzoletti-battista, a ricami, bianchìssimi, profumati; poi, susurrò ch'egli trarrebbe la vita in un palazzo sì, ma non suo, in mezzo a tappeti, a tappezzerìe di stoffa, a mobiglia intarsiata, ma di altri… e d'altri anche la figlia! e, tra una folla di servi, servo; in conclusione, ch'egli vivrebbe splendidamente di carità, senza il diritto ad un lagno. E Aurora intanto ed Enrico, a divertirsi, a gioire!… gaudiumque coeli poena poenàrum damnàtis.

Rispose dunque di netto:

— No —

No? Enrico era di sùbita ira. Abbiate pazienza! c'è il vino spumante e c'è il muto. Enrico, alzàtosi impetuoso, appoggiò sur il tàvolo un pugno, tale, che lo isfondò, gridando:

— Cattivisìssimo uomo! —

Il signor Pietro, lui e la sua poltrona, ruzzolò fino in fondo alla stanza, pàllido, come se l'omèrica botta avèsselo contracolpito.

— Fuori!… via!… — gridava; ed Enrico spaventato dallo spavento del vecchio, pigliò a precipizio la porta.

Ma, a mezza scala, diede nella fanciulla.

— Aurora! — esclamò, baciàndola in viso — io ti chiesi a tuo padre. Egli… mi ti ha negata!… Lo spaventài… perdona — e in quattro frasi la fece conta di tutto.

Ed essa? Essa pure baciollo… basta? sì ch'egli uscì che lanciava scintille.

 

VII

 Ultimi spruzzi di cattiveria

 

Appunto in quell'infàusto giorno, il signor Pietro ebbe il secondo colpetto. Egli rimase due dì senza potere spiccicare parola, i denti serrati tanto, che a pena gli si riuscì a introdurre qualche cucchiajo di roba. Nè il terzo colpetto si sarebbe fatto aspettare s'egli avesse saputo, che Enrico in persona era corso dal mèdico e dal farmacista, e che ora stava presso di lui, trepidando, in attesa di nuovamente servirlo.

E il signor Pietro non rimise un pie' nella vita (quasi a rincorsa alla morte) se non per proròmpere ingiurie contro alla figlia ed all'amato di lei. Parèa che non trovàssene mai di bastante. Sì ne disse di quelle, che il mèdico confessò ad Enrico ch'egli sentiva più voglia di mandarlo dal babbo che non di serbarlo alla figlia. E questa scioglièvasi in làgrime. Voleva proprio suo padre, che non le ne avanzasse una goccia per piàngerlo morto.

 

VIII

 Il testamento del signor Pietro

 È di mattina; le sei. Il dottore ha detto ad Enrico, che l'ammalato può andàrsene di minuto in minuto, e il giovanotto lo disse alla tosa. Sono dieci ore che il signor Pietro tiene chiusa la bocca e le palpèbre giù, rannicchiato contro del muro e ansante: solo, alle prime parole di una domanda d'Aurora che avèa sentore di chiesa e di preti, egli, impaziente, fremette.

E la fanciulla gli è accosto e gli ha una mano sul fronte, intantochè, nella medèsima stanza, Enrico, dietro di un paravento, aspetta una parola di pace.

Verso le sette, il moribondo si volge a fatica, guarda la figlia, e con la voce, come l'occhio, appannata:

— Aurora — fà.

— Oh babbo! — e la ragazza lo bacia.

— Par che la vita mi lasci — egli geme. — E io… io fui molto cattivo… più che cattivo, con la tua mamma e tè… ma…

— Oh babbo! — singhiozza la tosa.

— Ma — egli riprende con pena — io vo' che tu sia felice… Tu devi giurarmi… Eh? giuri?

— Sì…

— Di non sposare il Giorgi… il San-Giorgio, perchè… —

Enrico diede un sussulto di cui vacillò il paravento, e si fuggì nella stanza vicina. Là si gettò su'na sedia, pianse. Oh quando stillossi, mio Dio, una quintessenza più acuta di malvagità?

 

 

IX

 Dichiarazione del testamento

 

Aurora entra là dove Enrico si sta disperando, pàllida, con due madonnine che le còrrono giù:

— Pòvero babbo! — sospira.

— E tu che hai promesso, tu? — chiede l'amante con un singulto d'angoscia.

Ed essa: quello che manterrò.

Il giovanotto la mira con uno sguardo da folle, uno sguardo che preavvisa di serrare le imposte.

— O Enrico, esclama la bella — e chi ne toglie di amarci? —

E si amàrono infatti, e si amàrono sempre, chè il solo amore li tenèa legati. E stampàrono bimbi, intellettuali, formosi, i quali fùrono a loro il miglior contratto di nozze e la migliore delle benedizioni.



















rotusitala@gmail.com