LA MAESTRINA D'INGLESE Carlo Dossi I Squillo di campanello. Il campanello sussulta nella
stanzetta; che la sia pure anticàmera? E al suono, una ragazza gentile si presenta a una
porta, e leggera leggera corre a dischiùderne un'altra. Ed ecco un bel giòvane
biondo, alto, entrare, e tosto pigliarle con trasporto le palme. — E il pappà? — chied'egli di sottovoce. Aurora muove la graziosa testina tristissimamente. — Ma il dottore, che dice? — Dice: vi è un sol rimedio… morire. — Aurora ha nel parlare la più adoràbile erre del
mondo. Ma, oè, signore lettrici, non vi sforzate a erreggiare; un rossetto e un
bianchetto, come Natura dà, nel profumiere non troverete mai. I due bei giòvani stanno zitti, mani con mani, sguardo
con sguardo. — Aurora! — geme una voce dalla stanza vicina. La fanciulla si scuote, scioglie le sue dalle mani di
Enrico, che con passione le preme, e accorre a chi chiama. Enrico ode la voce dell'ammalato, diventando agra e
stizzosa, dire alla figlia che lo si abbandona, che lo si lascia morire, anzi!
che lo si desìdera morto… E Aurora, giù a piàngere. —
Oh l'egoista! — fà il giovanotto fra i denti, e sospira.
II Al doppio egoista di una sediòla ad un posto, il
signor Pietro Morelli non èrasi maritato, che a procurarsi una serva e un
materasso da botte, nè avèa messo insieme una figlia se non a preparàrsene
un'altra, per quando la prima sarebbe andata fuor d'uso. Un tiranno, già, suppone un pòpol minchione; e il
signor Pietro si era ben scelto il suo pòpolo. Imaginate, che la donna
di lui — di quelle pòvere ànime, prive di volontà o senza il coraggio di
averne, ànime nate ad ingloriosi martìri — curva sotto il trìplice peso
della fatica, della mala salute e della continua ingiuria, usava, a sua
maggiore querela, il sospiro; poi, stracca, frusta, avéa, per la paura
di contrariare il marito, aspettato e còlto a riposar tra quattr'assi, giusto
il momento che la figliuola giungesse a imbracciare da sola il sopràbito al
babbo. E Aurora, ànima anch'essa timida e per natura e abitùdine, avèa
accettata la successione di mamma, tal quale. Ma di lì a poco, il signor padre o padrone, preso da
un mezzo accidente, perdeva le gambe e l'impiego. Cangiò egli allora di
tàttica. Il signor Pietro, adesso, aveva bisogno di ajuto, e veramente bisogno,
per non èsser più in grado di obbligare gli altri a prestàrgliene: il signor
Pietro era vile; credeva che dell'amor della figlia, sebbene (tra noi) potesse
stare al sicuro, ci fosse poco a fidarsi; dunque dièdesi a fare la vittima, a
piàngere, a lamentarsi. E la buonìssima Aurora, la quale, a dispetto di ogni
rabuffo e d'ogni broncio di lui, l'avrebbe servito a ginocchi, ora ch'ei
supplicava, pensate! Sottile sottile era la pensione sua. Aurora, vogliosa
che nel bicchiere di babbo rosseggiàssene sempre del buono, saltò su a dire: — Darò lezioni d'inglese — Il signor Pietro fissolla con dubitoso stupore. — E sai l'inglese… tu? — disse. — Sì — ella fece timidamente — da un pezzo.
Me l'ha insegnato la mia maestra Racheli… Pappà, scusa! — e aggiunse, che
la detta maestra, la quale amàvala molto, le offriva… — No — interruppe il pappà, gentile come un chirurgo. E tàquero entrambi. No, avvertite, era la sua risposta
abituale; sentiva, nel proferirla, uno strano piacere. Vero è, che dovèa poi
scèndere al sì, ma pel momento era no. Pur, questa volta, il diniego stette. Sospettoso come
un topo frugato, il signor Pietro pensava che le lezioni d'inglese d'Aurora, se
non èrano già, potèvano convertirsi in tanti spedienti per istargli alla larga.
Aurora gli avrebbe dato ad intèndere ogni sorta di storie; ed egli, inchiodato
su'na poltrona, con la finestra che non vedeva che gatti, avrebbe dovuto, o
bene o male, inghiottirle.. No, no; egli s'amareggiava fin troppo quand'ella,
per la poca provvista, era fuori. Così passò un anno; muro a muro la vita. Tutto, men la
pensione, aumentava; ed il Governo, giù imposte! chè, quasi fosse una vigna il
paese, credeva arricchirsi l'impoverendo. Tornò il dare lezioni d'inglese a far capolino. Aurora
disse che la sua vecchia maestra avèala cerca per una brava signora e,
acconsentendo pappà… — No — rispose, secondo il suo vezzo, quella
delizia di padre. Pure soggiunse: — la vuol proprio imparare? ben, venga
quì. — Oh babbo! — sclamò la fanciulla con un
ghignuzzo — chi può èssere quello che fà dieci scale per una lezione
d'inglese? — Sul che, il signor
Pietro si degnò di riflèttere. 'Stavolta, il suo falso-egoismo se ne trovava di
fronte altrettanto: lì si trattava di scègliere tra un po' più di minestra o un
po' più di figliuola: e il signor Pietro, forse in quella a digiuno, si attenne
al “po' più di minestra.” Ma tuttavìa, volle e pretese un mucchio
d'informazioni: dopo, impòsene uno di condizioni. Ed eccolo, mentre Aurora è
lontana, atteso con l'occhio alla lancetta del pèndolo, la quale ha trascorso
l'ora fissata… Inquieto, egli manda e rimanda la ragazzina che gli tien
compagnìa, sul pianeròttolo… E pàssano altri dieci minuti… Perchè non torna?
che fà? Aurora entra pressosa, anelante. Il signor Pietro, senza lasciar ch'ella dica, comincia
a bajare come un can da pagliajo. Ed essa, alla prima in bilancia, risponde poi
risentita. Egli, allora, fuori il secondo argomento! cioè il moccichino… Dio
mio! ingrata figliola! Bianchi capelli! padre ammalato… tanto che, spaurita
la tosa, con le perle negli occhi, e il singhiozzo, gli dimanda perdono. Poi, un dì, il signor Pietro, veduto apparir la
fanciulla con un mazzetto di fiori, si cacciò in testa che gliel avèsser
donato. — È per tè — ella disse e lo porse — l'ho
comperato per tè — aggiunse, avvertendo alla nuvolosa aria del padre. Ma — in segno di grazie — questi lo getta
per terra. E fà “tu hai arrossito”; quindi, una scena d'ira e di pianto, il
ricordo di cui, le làgrime molte di Aurora, èbbero pena, assài pena a lavare. O è vero ch'ella avèa arrossito? Sì… vero, che il mazzolino era un dono? No… Ma perchè io meglio mi spieghi, e voi men male
intendiate, prenderò il fazzoletto per un capo diverso.
Ma!… egli era anche di spìrito, non qualità da marito,
sì che, guardàndosi attorno, vìdesi tosto, in mezzo ad amici che gli dicèvano
“se' navigato abbastanza”; a babbi che gli narràvano le domèstiche gioje,
apprese a colla-di-bocca in su i libri; a mamme — grandi e non
grandi — che gli toglièvano il fiato a furia di sesquipedali accoglienze
con tanto di fòdera, ora invitàndolo a pranzo, per mètterlo accosto a
collegialine pupazze sciocchissimamente belle, ora facèndolo a forza ballare
con vèrgini stagionate, pudiche fino allo scàndalo; insomma, vìdesi in mezzo a
una tal rete vasta d'intrighi, a tanta roba posticcia, che, stomacato e anche
un po' impaurito, risolse fuggire laddove ancor si dormiva beatamente “il greve
sonno della barbarie.” Fermo nel quale
partito, Enrico, un dì, soprapensieri passeggiava una via, riandando i paesi
già visti e quelli a vedere. Ecchè non andrebbe al Giappone? là, in quella
terra da vasi, in cui il mondo è a rovescio, e i nostri non-sensi hanno senso,
e le nostre eccezioni son règole? Ei vi potrebbe comprare un bel servizio da
tè, poi, tanta curiosa frugaglia — e palle d'avorio cinque-entro-una, e un
vestiario di carta, e strani disegni (sogni fotografati) e scarpe di
porcellana, piccine… e perchè no? forse coi loro pieducci vivi al didentro, con
quel che segue al difuori… — Dunque, al Giappone!… si piglia prima per
Suez; si fà il mar Rosso… tocco Ceilan, mi vi provvedo del buon zafferano,
torno a imbarcarmi per Singapore e Sciang-hai, vo a Nagasaki, poi a Yokoama,
poi, se si può, infilo lo stretto di Kanagava… — Ed egli scorgèa di già i
draghi-volanti nella imperiale Jeddo, quando “Oè! la vita, signori! eh!” venne
arrestato dalla carriola d'un perecottajo… Maledetta carriola! Per cui, si trasse di banda contro di una bottega. Era
questa di fiori; ci si vedèvano vasi di novellini gerani e garòfani, desìo
della pòvera agucchiatrice; vasi di erba amarella, dittamo e ruta, amori della
pulcellona; mazzi con il Vidoppio, musco; corone di bianche rose, da far parere
più in fiamme la guancia di una vèrgine sposa o pàllida doppiamente quella di
una vèrgine morta; ma, il tutto, qual sfondo ad un più splèndido fiore, dico ad
una fanciulla, vero occhio di sole, ferma anche lei per la carriola di pere… Oh
benedetta carriola! E la fanciulla avèa uno di que' tai visi, passavìa
della tristezza, che fanno belli gli specchi, a colori e a contorno finissimo,
dal naso gentilmente aquilino, e cui, gli occhi furbetti e un germe di
malizioso ghignuzzo sul destro canto fra i labbri, dàvano il moscadello. Le
manine poi, lunghe, sottili, a mezziguanti di filo; una, sul seno come a
fermaglio, tenèa raccolto uno scialletto scozzese; l'altra, stringendo un
mazzoluccio di viole, scendeva lungo la gonna a mille-righe di bianco e di
nero. E, dall'imo di questa, usciva la mascherina di una scarpetta, piccola sì
da mèttere il dubbio se avrebbe potuto annidare una tòrtora. Enrico si sentì il cuore sommosso; capì i suòi viaggi
finiti; gli cadde di bocca lo scorcio di sigaro, e: — Oh il bel mazzetto! — fece. Allor la fanciulla girò la testa alla voce, infiorando
un sorriso; ma, come diede nel giòvane, arrossì tutta e volse lo sguardo al
mazzetto, quasi a passargli quel complimento, che, sotto il nome di lui,
èrasele volto. Eppòi, lesta lesta, partì. Ed egli, dietro. IV Ned ella gli dimandò che volèa, ned egli l'espresse,
chè tutti e due èrano già nella sala, alla presenza del padrone di casa. Al quale, il nuovo arrivato, fatto un inchino, chiese: — Ho io l'onore di salutare il signor Pietro Morelli? — Sì, per servirla — rispose l'infermo, alquanto
maravigliato; e, dopo una diffidentissima pàusa — Si accòmodi. — La servettina portò al forestiere una scranna. Quello, siedette. — Mi chiamo Enrico… Giorgini — poi
cominciò; e disse, ch'egli era un negoziante di panni, il quale, secco della
tarda avviatura de' suòi affari in patria, voleva recarsi in Amèrica…
giustamente a New-York… — Il signor Pietro con un gesto assentì, quasi a
dire: — Ma bravo! — Tuttavia — segui il giovanotto — c'è un
male… non conosco la lingua… — Già; è un male — convenne l'infermo. — Ora, avèa egli, il Giorgini, in una casa
d'amici, udito a parlare di una signora Morelli, maestra d'inglese della
contessa Orologi… di cui la contessa era enchantée… — Quì il signor Pietro rifiutò con la mano la lode,
quasi fosse per lui, bah! — Dunque — conchiuse il Giorgini —
prego la signora sua figlia ad accettarmi a scolare; scolare un po' vecchio, ma
pieno di buonavoglia, e pregola inoltre di pormi un due ore ogni dì, perchè io
passi da lei. — Il signor Pietro, mentre Enrico diceva, ne masticava
una a una le sìllabe; com'ebbe finito, trasse, a prèndersi tempo, il moccichino
di tasca, spiegollo, gli cercò ai capi la cifra, e se lo applicò. E, nel
soffiàrselo lentissimamente, vide ch'egli poteva a una volta imberciare in
tutti e due i bersagli, cioè nel po' più di minestra e nel non men di
figliola. Nondimeno, rispose: — Aurora, non deve star molto a tornare; ha ella
pazienza di attènderla? — Oh si figuri — fe' Enrico, che meglio non
isperava. E attese. E, intanto, discorse di moltìssimo altro col vecchio, il
quale, uno trovando che dàvagli in tutto ragione, rimase giulebbe. — È quà — disse a un tratto l'infermo, additando
la porta — La fà l'ùltima scala… — Enrico sentissi rimescolare; si alzò. — Stia còmodo! — suggerì il signor Pietro. Ed ecco, tenendo l'uscio dischiuso la servettina,
entrare, con un visetto che ancor più brillava del sòlito, Aurora. La quale,
sul primo, scorgendo una persona inusata, sostenne la vispa andatura; poi,
raffigurato chi era, ne sobbalzò. — Il signor Giorgini — disse allora il
pappà — vuole imparare l'inglese. Ei chiede se puòi disporre di qualche
ora per giorno, e di quali. Verrebbe quì — ed appoggiò la voce sul quì. — Per mè, sono lìbere tutte — avvertì il
giovanotto. — Potrèi dire anch'io lo stesso — fè, sorridendo
e con quel suo monello aggricciare di labbra la tosa; (e dopo una
irresoluzione: ) — Alle due? le và? — Enrico, che la bevèa con gli occhi, e a stenti non con
la bocca, fu per rispòndere che tutte le ore passate con lei, dovèano èssere
belle — al par di lei, belle — ma si trattenne. Invece, parlò come
scolare a maestro; le dimandò se l'inglese fosse una diffìcile lingua, chièsele
conto delle più buone grammàtiche, dei libri di prima lettura insomma, cercò di
tirare in lungo il collòquio, nè, al certo, lei d'accorciarlo. Oh! senza il
babbo per terzo, chissà fin quando avrebbe continuato! Così, dovette finire.
Enrico strinse la mano al pappà, poi alla splendente fanciulla. E, da
quest'ùltima stretta, il tremore, che naque ai polsi dei due e si propagò per
le vene, disse lor cose che avèano poco a che fare con l'Ollendorff e il
Millhouse. Molto migliori però.
E, dopo due chiàcchiere e sulla salute ed il tempo,
aveva principio il dettato. Era curioso il notare com'ella facesse
fatica a dir bene, egli a scrivere male. A volte, Enrico sostava a porre una
domanda o un dubbio, o meglio, a consolarsi la vista; ed ella gli rispondeva
turbata. Turbata? epperchè? perchè forse vedèa che insegnava a un maestro? E,
se sì, starsi zitta? a che? Appresso, si leggeva il dettato; capital punto della
lezione. Allora, le due sedie amorose s'avvicinàvano sul quarto lato del
tàvolo, cioè in facciatina all'egoista poltrona del babbo, e la bella ragazza,
con l'imo di un tagliacarte, apriva la strada ad Enrico, mentre costùi, spesso,
si diperdeva a mirare, non la parola, bensì le dita affilate che gliela
indicàvano. E la ragazza: su, coraggio, signore; dica. — — Diàvolo d'un inglese! — borbottava il pappà.
Tanto che lo scolare, tirato fuori dall'èstasi, accentuava la ritrosa parola in
modo, che, se Aurora gentile fosse stata solo maestra, n'avrebbe fatto
tesoro. A volte poi, e' si
sentiva solleticare da un capriccioso riccietto o titillare la guancia all'appressarsi
della rasata di lei; ancora un pochino, e si sarèbbero tocche. Serràvali in
quella lo smarrimento medèsimo; èrano come ubbriachi; leggèvano macchinalmente
o almeno credèano lèggere, chè, davvero, che forloccàssero mai, neppur
Centofanti sarebbe riuscito a capire. Fortuna, che tutto
l'inglese del babbo consisteva in beef-steak e roast-beef con la
giunta dell'yes! Ma un dì, usando essi di fare anche un po' di diàlogo: — Whom do you love? — chiese la bella
volgèndosi ad Enrico e innamoratamente guardàndolo. Enrico non tènnesi più. — I love you! — fece con entusiasmo. La fanciulla arrossò. — Love? che significa love? — disse
intorbidàndosi il babbo e strascicando la voce. E, a botta risposta, Enrico: mangio. — Il Signor Pietro lampeggiò l'uno, poi l'altra, con
un'occhiata tale, che, se le occhiate lasciàssero il segno, quella li avrebbe
uccisi di colpo. E, la lezione finita, ed il Giorgini partito, si die' a
carteggiare il “Baretti.”
— Ho da parlarle — disse il Giorgini,
inchinàndosi al vecchio; e siedette. — Anch'io — oppose costùi con un sogghigno di
tristìssimo augurio. — Dica — acconsentì il giovanotto. — No; dica lei — ribattè il signor Pietro. Dunque, Enrico, piegossi un po' indietro sulla
spalliera della sua sedia, passando la mano alla bocca e accarezzàndosi il
mento. Forse, avèa apparecchiato un discorso, ma il discorso era ito. Il babbo di Aurora lo guatava attendendo. Enrico si stancò di cercare: — Signore — disse con risoluto cenno di
capo — parliamo sgusciato. Io adoro sua figlia e gliela chiedo per
sposa. — Ve', il signor Pietro non mosse pure palpèbra. Ma con
calma rispose, calma di temporale però: — Seppi io jeri, che ella faceva la corte a mia
figlia; oggi lei sappia, che, quanto a sposarla, nichts! — Enrico sentissi le bragia sul viso; pure, si limitò di
arricciarsi i mostacchi; e con le belle belline difese la causa sua e di ogni
cuore gentile; toccò dell'immenso amore per lei, amore che pareggiava sol
quello della ragazza per lui… Al che, il signor Pietro sbuffava e barbugliava tra le
gengive: oh! mèttere in succhio una tosa… scusate se è poco!… già; al taglio
come le angurie… chiòh eh! Poi, Enrico lasciò il tema su amore e parlò numerario;
disse, ch'ei non si chiamava Giorgini; sì bene San-Giorgio, dei
San-Giorgio di Ponte (che volèa dir milionari) per cui, egli ed Aurora,
avrèbbero circondato il lor babbo di tutti gli agi possìbili. La quale ùltima corda non sonò male al pappà. — Insomma — finì il giovanotto, pigliando a
colùi, con preghiera e speranza, una mano — ella può fare la felicità di
noi due. Bene; questo argomento — chi non vuol crèder non
creda — ruinò tutta la càusa. Il falso egoismo susurrò tosto all'infermo,
che là ove due si àman da vero, un terzo è di troppo; ch'ei sembrerebbe una
pezzuola-cotone, a villani colori, sudicia, in un cassettino di
fazzoletti-battista, a ricami, bianchìssimi, profumati; poi, susurrò ch'egli
trarrebbe la vita in un palazzo sì, ma non suo, in mezzo a tappeti, a
tappezzerìe di stoffa, a mobiglia intarsiata, ma di altri… e d'altri anche la
figlia! e, tra una folla di servi, servo; in conclusione, ch'egli vivrebbe
splendidamente di carità, senza il diritto ad un lagno. E Aurora intanto
ed Enrico, a divertirsi, a gioire!… gaudiumque coeli poena poenàrum
damnàtis. Rispose dunque di netto: — No — No? Enrico era di sùbita ira. Abbiate pazienza! c'è il
vino spumante e c'è il muto. Enrico, alzàtosi impetuoso, appoggiò sur il tàvolo
un pugno, tale, che lo isfondò, gridando: — Cattivisìssimo uomo! — Il signor Pietro, lui e la sua poltrona, ruzzolò fino
in fondo alla stanza, pàllido, come se l'omèrica botta avèsselo contracolpito. — Fuori!… via!… — gridava; ed Enrico spaventato
dallo spavento del vecchio, pigliò a precipizio la porta. Ma, a mezza scala, diede nella fanciulla. — Aurora! — esclamò, baciàndola in viso — io
ti chiesi a tuo padre. Egli… mi ti ha negata!… Lo spaventài… perdona — e
in quattro frasi la fece conta di tutto. Ed essa? Essa pure
baciollo… basta? sì ch'egli uscì che lanciava scintille.
VII E il signor Pietro
non rimise un pie' nella vita (quasi a rincorsa alla morte) se non per
proròmpere ingiurie contro alla figlia ed all'amato di lei. Parèa che non
trovàssene mai di bastante. Sì ne disse di quelle, che il mèdico confessò ad
Enrico ch'egli sentiva più voglia di mandarlo dal babbo che non di serbarlo
alla figlia. E questa scioglièvasi in làgrime. Voleva proprio suo padre, che
non le ne avanzasse una goccia per piàngerlo morto.
VIII E la fanciulla gli è accosto e gli ha una mano sul
fronte, intantochè, nella medèsima stanza, Enrico, dietro di un paravento,
aspetta una parola di pace. Verso le sette, il moribondo si volge a fatica, guarda
la figlia, e con la voce, come l'occhio, appannata: — Aurora — fà. — Oh babbo! — e la ragazza lo bacia. — Par che la vita mi lasci — egli geme. — E
io… io fui molto cattivo… più che cattivo, con la tua mamma e tè… ma… — Oh babbo! — singhiozza la tosa. — Ma — egli riprende con pena — io vo' che
tu sia felice… Tu devi giurarmi… Eh? giuri? — Sì… — Di non sposare il Giorgi… il San-Giorgio,
perchè… — Enrico diede un sussulto di cui vacillò il paravento,
e si fuggì nella stanza vicina. Là si gettò su'na sedia, pianse. Oh quando
stillossi, mio Dio, una quintessenza più acuta di malvagità? IX Aurora entra là dove Enrico si sta disperando,
pàllida, con due madonnine che le còrrono giù: — Pòvero babbo! — sospira. — E tu che hai promesso, tu? — chiede l'amante
con un singulto d'angoscia. Ed essa: quello che manterrò. Il giovanotto la mira con uno sguardo da folle, uno
sguardo che preavvisa di serrare le imposte. — O Enrico, esclama la bella — e chi ne toglie di
amarci? — E si amàrono
infatti, e si amàrono sempre, chè il solo amore li tenèa legati. E
stampàrono bimbi, intellettuali, formosi, i quali fùrono a loro il miglior
contratto di nozze e la migliore delle benedizioni. |