Il Vecchio e il Bambino
Claude Berri
Pioveva ancora, la stessa pioggerella sottile ma costante di Nemours e di Caluires. Bastava già questo a rendermi triste. E avevo paura di quello che sarebbe successo a scuola. Mi domandavo se l'insegnante sarebbe stato un maestro o
una maestra e se lui o lei sarebbero stati simpatici. Mi domandavo se me ne
avrebbero voluto per il fatto che ero ebreo. Mi domandavo com'erano i ragazzi
di campagna. Promisi a me stesso che avrei studiato, che sarei stato il primo
in tutto per far piacere ai miei genitori. Inoltre, se avessi studiato molto, non avrei avuto tempo di esser
triste.
La scuola era situata in una piazzetta con un albero di sicomoro e una fontana. Mi sedetti su un muro un po' lontano dai ragazzi e dalle ragazze, che mi guardavano parlottando a voce bassa. Arrivò
la maestra. Pensai che assomigliava a un'anguilla nera. I suoi occhi, i
capelli, il vestito, tutto era nero. Papà e io avevamo spesso giocato al gioco
delle somiglianze tra persone e animali. Ne avevo ancora l'abitudine. Le
anguille non mi piacevano molto: ti guizzano tra le dita e sono viscide. La
maestra mi si avvicinò. Persino il suo sorriso m'innervosiva. Avevo
l'impressione che mi avrebbe fatto qualche scherzo crudele. Mi domandò come mi
chiamavo.
- Longuet, signora.
Lo compitai con cura: -
L-O-N-G-U-E-T.
Non avevo sbagliato, ed ero fiero di me. I ragazzi della scuola
avevano preso coraggio ed erano là, attorno a noi. La maestra fece una risatina
cattiva: - Ma che nome buffo!
Attorno a me ci fu uno scoppio di risa. Guardai per terra. Era vero che era un nome buffo. Ma che potevo farci? C'era una guerra e io ero ebreo. Il mio vero nome era Langmann, un nome grande, bellissimo, caldo, il nome di mio padre, il nome che lui aveva
dato a mia madre il giorno in cui si erano sposati, il nome che aveva dato a me
il giorno in cui ero nato, il mio nome di prima della guerra.
Avevo voglia di urlarlo.
(…)
Finalmente la maestra uscì, seguita da Maxime. Battè‚ le mani e ci fece schierare in quadrato. Era solenne. Ma non per questo aveva rinunziato al suo eterno, crudele sorriso. Maxime era al suo
fianco, e rigirava tra le dita il berretto. Guardai Dinou. Era calma e non
sospettava nulla. La maestra estrasse dalla tasca del suo grembiule la cartolina, la brandì in aria perchè tutti potessero vederla e domandò: - Chi ha
scritto questa graziosa cartolina?
La sua voce era flautata, quasi dolce. Gli allievi si scambiarono delle occhiate. Guardai Dinou. Dalla disperazione che mi vide dipinta in volto sospettò che fossi stato
io. Maxime era pronto a scagliarsi sul colpevole. La voce della
maestra si fece ancor più mielata. - Chi ha fatto questi deliziosi errori
d'ortografia? Chi è l'anima coraggiosa che si firma con una padella?
Quale demonio mi spinse a farlo? Non lo saprò mai: invece di star zitto, firmai io stesso la mia sentenza. - Non è una padella, è
una ciliegia.
Ero fiero di me, e sorrisi a Dinou che abbassò gli occhi. Avrei voluto avvicinarmi a lei, prenderla per mano e dire a tutti che
l'amavo.
Tutta la classe scoppiò a ridere. Soltanto Dinou non rise. La
maestra mi venne vicino e mi sventolò la cartolina sotto il naso.
- Dunque, sei stato tu?
Guardai la maestra dritto negli occhi. - Sono stato io!
Non stavo confessando il
mio delitto, stavo vantandomene.
Lentamente, la maestra estrasse dalla tasca la macchina tosatrice.
Maxime si calzò il berretto sulle orecchie e balzò verso di me. Io corsi via. Da quel giorno so che cosa significa essere un animale braccato che sta per morire. Dinou era alle mie calcagna, seguita da tutta quella marmaglia. Sento ancora i tonfi delle loro scarpe di legno,
gli urli delle ragazze. Correvo più in fretta che potevo. Andavo veloce, ma ero
condannato. Fu Maxime ad acchiapparmi. Mi riportò indietro nel cortile della
scuola: io mi dibattevo e scalciavo. Urlai. Piansi. Me ne infischiavo della mia dignità. Volevo i miei capelli! Ma la maestra eseguì la sentenza fino alla fine. Rapato!
Ero rapato, innocente, lontano da mia madre, lontano da mio padre: rapato.
Un animale, dopo che l'hanno marchiato, viene lasciato libero di andarsene in pace. Fu lo stesso con me. Il padre di Dinou mi lasciò libero. Mi sentivo umiliato, disperato. Avevano osato
raparmi solo per una cartolina con un messaggio piuttosto bello. E questa la
chiamavano giustizia! Quando avevo rubato dei giocattoli, quando mi ero
strappato la camicia, mi ero meritato le botte che avevo preso. Ma raparmi per una piccola dichiarazione d'amore! Mi toccai la testa: ero nudo. Piansi in silenzio. Non ero più arrabbiato. Ero
solo.
La cerimonia era finita. Erano tutti attorno a me in circolo. Non ridevano più. Smisi di piangere e li guardai a uno a uno. Non
erano affatto fieri. Anche Maxime abbassò gli occhi. E, per una volta, la
maestra aveva smesso d'inalberare il suo eterno sorriso.
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