(...) Arrivo a scuola in ritardo, cerco inutilmente
nell'aria tersa un'ultima eco della campanella. Comincio ad avanzare nel
cortile vuoto, tra i riquadri di luci e d'ombra proiettati dalle finestre
allineate; passo accanto alle porte bisbiglianti di classi che stanno
studiando. E allora mi accorgo, con sorpresa, che il direttore mi sta
inseguendo, da lontano mi chiama. Ma ormai sono vicino alla mia classe, dal
fondo del corridoio ne giunge lo strepito soffocato. Hanno chiuso la porta per
non rivelare la mia assenza, ma li tradisce la loro agitazione.
Il direttore mi chiama di nuovo, dal fondo del corridoio, ma io mi sottraggo
alla sua vista e apro la porta della classe sui loro urli, risate, schiamazzi
che si smorzano in un brusio di sottile delusione. Erano sicuri che per oggi
non sarei più arrivato. Rimango in piedi vicino alla porta e lì aspetto finché
non si sono separati, coi capelli in disordine, i visi arrossati, nelle loro
divise azzurre, e non ritornano ognuno al loro posto, spostano coi piedi le
piccole sedie, rimettono a posto le loro Bibbie, e un po' alla volta i banchi
si coprono di fogli bianchi, pronti per il compito.
Qualcuno alla lavagna cancella delle parole oscene, una caricatura ispirata
alla mia figura. Mi guardano sfrontati, negli occhi, sorridono tra sé, ma
rimangono zitti. La mia età è ancora sufficiente per calmarli.
E in quel momento, quando comincio ad avanzare nella classe tenendo in mano i
testi del compito, arriva trafelato il direttore, pallido in volto.
(...)Sono ormai tre anni che non ci parliamo, che ci
guardiamo come se fossimo sassi. E sono tre anni che non metto piede nella sala
professori, non mi siedo, non mi avvicino al bricco del tè. Sono a scuola dal
mattino presto, durante gli intervalli sono per i corridoi, o nel cortile.
D'estate - con un cappello grande, a larghe tese - e d'inverno - con un
cappotto pesante, il bavero rialzato - mi unisco al flusso degli studenti,
avanti e indietro. In segreteria ci entro un bel po' dopo la fine delle
lezioni, lascio gli elenchi dei voti, mi rifornisco di gessi.
E' raro che parli con gli altri insegnanti.
Tre anni fa avevo raggiunto l'età per andare in pensione, e me ne ero fatta una
ragione, avevo persino pensato di scrivere un libretto sull'insegnamento della
Bibbia, ma scoppiò all'improvviso la guerra, e l'aria intorno a me si riempì
del rombo dei cannoni e di urli lontani. Comunicai al direttore che non mi
sarei dimesso, che sarei rimasto nella scuola finché non fosse finita la
guerra. In fondo, adesso che gli insegnanti vengono richiamati sotto le armi
uno dopo l'altro, avrebbe avuto molto bisogno di me. Ma lui non vedeva nessun
legame tra la guerra e me. - Presto la guerra sarà finita, - mi rispose con uno
strano sorriso, - e tu hai diritto di riposare.
Ma non venne il riposo, bensì un'estate di fuoco, e notizie infiammate. E due
nostri ex studenti, giovanissimi, furono uccisi in due giorni. E ritornai da
lui, alterato, le mani che mi tremavano: gli dico balbettando che non vedo
proprio come potrei abbandonarli ora, cioè ora che li mandiamo a morire. Ma lui
non vedeva nessun legame tra la loro morte e me. E cominciarono le vacanze
estive, e io che non trovo pace, sono ogni giorno nella scuola deserta, giro
per la segreteria, accanto alla sala professori, aspetto le notizie, parlo con
i genitori e chiedo dei loro figli, osservo gli studenti in uniforme che
vengono a informarsi sui voti ottenuti all'esame di maturità, o a restituire un
libro in biblioteca, e fiuto in lontananza odore di bruciato.
E venne un altro morto, inatteso, studente di uno dei primi corsi, così amato
ai suoi tempi, saltato su una mina in una strada polverosa, e io sono un'altra
volta dal direttore; eccitato, prostrato, gli dico: -Adesso vedi, - ma lui
ormai si vuole staccare da me. Aveva dato istruzioni per preparare le pratiche
del mio pensionamento, voleva organizzare una piccola festa in mio onore, alla
quale naturalmente rinunciai. Una settimana prima dell'inizio delle lezioni gli
proposi di lavorare gratis purché mi lasciasse le mie classi, ma lui aveva già
firmato un contratto con un nuovo insegnante, e io non risultavo più inserito
nell'organico. Riapre la scuola. E io arrivo al mattino con tutti gli altri,
con una borsa di libri e un pezzo di gesso, pronto per insegnare. Mi scoprì
vicino alla sala professori e chiese esterrefatto che cosa era successo, che
cosa facevo qui, ma io non risposi, non lo guardai nemmeno, come se avessi di
fronte una pietra. Pensò che fossi ammattito, ma in quelle ore confuse
dell'inizio delle lezioni non aveva tempo per me. E io intanto seguivo con gli
occhi il nuovo insegnante, un giovane magro e pallido in volto, per poi
andargli dietro. Lui entra in classe, io indugio un attimo e poi entro dietro
di lui. Scusa, gli dico accennando un sorriso, certo ti stai sbagliando, questa
non è la tua classe, e lui rimane confuso, mentre io sono già salito in
cattedra e ho già tirato fuori la mia vecchia Bibbia consunta. Lui balbetta
delle scuse ed esce, e agli studenti stupefatti che non credevano più di
vedermi non lasciai nemmeno la possibilità di aprir bocca. Quando dopo qualche
minuto compare il direttore io sono ormai nel bel mezzo della lezione, gli
studenti ascoltano avvinti. Non era possibile spostarmi di lì. Durante
l'intervallo non lasciai l'aula, rimasi sempre in mezzo ai ragazzi. Il
direttore mi aspettava fuori, ma non osò avvicinarsi. Se si fosse avvicinato
avrei gridato, lui sapeva bene che di fronte agli studenti avrei gridato, e
temeva gli scandali più di ogni altra cosa. Ritornai all'insegnamento con la
forza. (...)
|
|