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Lunario dei giorni di scuola


Prima settimana intermezzo

immlunarioterza


All'inizio dell'estate del 1970
Abraham B. Yehoshua

(...) Arrivo a scuola in ritardo, cerco inutilmente nell'aria tersa un'ultima eco della campanella. Comincio ad avanzare nel cortile vuoto, tra i riquadri di luci e d'ombra proiettati dalle finestre allineate; passo accanto alle porte bisbiglianti di classi che stanno studiando. E allora mi accorgo, con sorpresa, che il direttore mi sta inseguendo, da lontano mi chiama. Ma ormai sono vicino alla mia classe, dal fondo del corridoio ne giunge lo strepito soffocato. Hanno chiuso la porta per non rivelare la mia assenza, ma li tradisce la loro agitazione.
Il direttore mi chiama di nuovo, dal fondo del corridoio, ma io mi sottraggo alla sua vista e apro la porta della classe sui loro urli, risate, schiamazzi che si smorzano in un brusio di sottile delusione. Erano sicuri che per oggi non sarei più arrivato. Rimango in piedi vicino alla porta e lì aspetto finché non si sono separati, coi capelli in disordine, i visi arrossati, nelle loro divise azzurre, e non ritornano ognuno al loro posto, spostano coi piedi le piccole sedie, rimettono a posto le loro Bibbie, e un po' alla volta i banchi si coprono di fogli bianchi, pronti per il compito.
Qualcuno alla lavagna cancella delle parole oscene, una caricatura ispirata alla mia figura. Mi guardano sfrontati, negli occhi, sorridono tra sé, ma rimangono zitti. La mia età è ancora sufficiente per calmarli.
E in quel momento, quando comincio ad avanzare nella classe tenendo in mano i testi del compito, arriva trafelato il direttore, pallido in volto.

(...)Sono ormai tre anni che non ci parliamo, che ci guardiamo come se fossimo sassi. E sono tre anni che non metto piede nella sala professori, non mi siedo, non mi avvicino al bricco del tè. Sono a scuola dal mattino presto, durante gli intervalli sono per i corridoi, o nel cortile. D'estate - con un cappello grande, a larghe tese - e d'inverno - con un cappotto pesante, il bavero rialzato - mi unisco al flusso degli studenti, avanti e indietro. In segreteria ci entro un bel po' dopo la fine delle lezioni, lascio gli elenchi dei voti, mi rifornisco di gessi.
E' raro che parli con gli altri insegnanti.
Tre anni fa avevo raggiunto l'età per andare in pensione, e me ne ero fatta una ragione, avevo persino pensato di scrivere un libretto sull'insegnamento della Bibbia, ma scoppiò all'improvviso la guerra, e l'aria intorno a me si riempì del rombo dei cannoni e di urli lontani. Comunicai al direttore che non mi sarei dimesso, che sarei rimasto nella scuola finché non fosse finita la guerra. In fondo, adesso che gli insegnanti vengono richiamati sotto le armi uno dopo l'altro, avrebbe avuto molto bisogno di me. Ma lui non vedeva nessun legame tra la guerra e me. - Presto la guerra sarà finita, - mi rispose con uno strano sorriso, - e tu hai diritto di riposare.
Ma non venne il riposo, bensì un'estate di fuoco, e notizie infiammate. E due nostri ex studenti, giovanissimi, furono uccisi in due giorni. E ritornai da lui, alterato, le mani che mi tremavano: gli dico balbettando che non vedo proprio come potrei abbandonarli ora, cioè ora che li mandiamo a morire. Ma lui non vedeva nessun legame tra la loro morte e me. E cominciarono le vacanze estive, e io che non trovo pace, sono ogni giorno nella scuola deserta, giro per la segreteria, accanto alla sala professori, aspetto le notizie, parlo con i genitori e chiedo dei loro figli, osservo gli studenti in uniforme che vengono a informarsi sui voti ottenuti all'esame di maturità, o a restituire un libro in biblioteca, e fiuto in lontananza odore di bruciato.
E venne un altro morto, inatteso, studente di uno dei primi corsi, così amato ai suoi tempi, saltato su una mina in una strada polverosa, e io sono un'altra volta dal direttore; eccitato, prostrato, gli dico: -Adesso vedi, - ma lui ormai si vuole staccare da me. Aveva dato istruzioni per preparare le pratiche del mio pensionamento, voleva organizzare una piccola festa in mio onore, alla quale naturalmente rinunciai. Una settimana prima dell'inizio delle lezioni gli proposi di lavorare gratis purché mi lasciasse le mie classi, ma lui aveva già firmato un contratto con un nuovo insegnante, e io non risultavo più inserito nell'organico. Riapre la scuola. E io arrivo al mattino con tutti gli altri, con una borsa di libri e un pezzo di gesso, pronto per insegnare. Mi scoprì vicino alla sala professori e chiese esterrefatto che cosa era successo, che cosa facevo qui, ma io non risposi, non lo guardai nemmeno, come se avessi di fronte una pietra. Pensò che fossi ammattito, ma in quelle ore confuse dell'inizio delle lezioni non aveva tempo per me. E io intanto seguivo con gli occhi il nuovo insegnante, un giovane magro e pallido in volto, per poi andargli dietro. Lui entra in classe, io indugio un attimo e poi entro dietro di lui. Scusa, gli dico accennando un sorriso, certo ti stai sbagliando, questa non è la tua classe, e lui rimane confuso, mentre io sono già salito in cattedra e ho già tirato fuori la mia vecchia Bibbia consunta. Lui balbetta delle scuse ed esce, e agli studenti stupefatti che non credevano più di vedermi non lasciai nemmeno la possibilità di aprir bocca. Quando dopo qualche minuto compare il direttore io sono ormai nel bel mezzo della lezione, gli studenti ascoltano avvinti. Non era possibile spostarmi di lì. Durante l'intervallo non lasciai l'aula, rimasi sempre in mezzo ai ragazzi. Il direttore mi aspettava fuori, ma non osò avvicinarsi. Se si fosse avvicinato avrei gridato, lui sapeva bene che di fronte agli studenti avrei gridato, e temeva gli scandali più di ogni altra cosa. Ritornai all'insegnamento con la forza. (...)




















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