Le stagioni della vita Hermann Hesse Mondadori Si può amare “un uomo anche quando lo si
ha come avversario, anche se è lunatico, ingiusto e terribile”? Herman Hesse
non ha dubbi a riguardo e ci restituisce la figura di un insegnante
integralmente votato al suo “mestiere”, laddove questo termine assume però l’accezione
di vera e propria missione esistenziale. (…) Nei miei anni di scuola due
insegnanti ho potuto amare e rispettare, riconoscendo loro senza esitazioni
un’autorità assoluta e lasciandomene dirigere con una semplice occhiata. Il
primo, di nome Schmid, insegnava nella scuola classica di Calw, ed era un professore
assai poco amato da tutti gli altri studenti, e temuto perché severo, aspro,
bisbetico e inflessibile. Egli divenne importante per me perché nella sua
classe (noi avevamo dodici anni) ebbe inizio lo studio del greco. Allievi di
una piccola scuola quasi rurale eravamo abituati a insegnanti o da temere e
odiare, o da eludere mentendo, oppure da deridere e disprezzare. La loro
indubbia autorità, che esercitavano a volte in modo tremendo e inumano –
accadeva ancora spesso che i colpi sulle mani o le tirate d’orecchio
arrivassero al sangue, era enorme e del tutto immeritata, ma si trattava di un
potere ostile, temuto e odiato. Che un insegnante potesse avere autorità per il
fatto che ci era superiore, perché rappresentava la cultura e l’umanità e ci radicava
nell’animo l’idea di un mondo più alto e più puro, questo con tutti gli altri
insegnanti delle classi inferiori non l’avevamo ancora provato. Ne avevamo
conosciuti di bonari, che alleggerivano a sé e a noi la noia delle lezioni
lasciando correre, guardando fuori della finestra o leggendo romanzi mentre noi
copiavamo l’uno dall’altro un esercizio scritto qualsiasi. Avevamo conosciuto
anche maestri malvagi, tetri, rabbiosi, furiosi, che ci tiravano i capelli e ci
picchiavano in testa. (Uno che era il vero tipo dell’iracondo, un gobbo, soleva
accompagnare le sue ramanzine ai cattivi scolari battendo loro a tempo sulla
testa la sua pesante chiave di casa.) Che ci potessero essere anche dei
professori che l’allievo segue affascinato e volenteroso, tali che di buon
grado egli s’affatica per loro e ne scusa perfino le ingiustizie e i malumori,
cui è grato per il mondo più alto che gli schiudono, e cerca di dimostrare la
propria riconoscenza, questa possibilità ci era rimasta sino allora
sconosciuta. E ora in quarta mi toccava il professor Schmid. Dei circa
venticinque scolari di quella classe, noi cinque che ci eravamo decisi per gli
studi umanistici, eravamo chiamati «umanisti» o «greci», perché, mentre gli
altri avevano lezioni profane, come disegno, scienze naturali e simili,
venivamo iniziati dal professor Schmid al greco. Egli non era affatto ben
visto: un uomo rasato e coi capelli scuri, pallido, malaticcio,
dall’espressione preoccupata e dallo sguardo amaro, per lo più di umore serio e
severo, che anche quando scherzava aveva un tono sarcastico. Non so che cosa
fosse precisamente in lui che mi conquistò, contro il giudizio di tutta la
classe, forse fu l’impressione della sua infelicità. Non era robusto e appariva
sofferente, aveva inoltre una moglie inferma, delicata di salute, che non si
faceva quasi mai vedere; e del resto viveva, come tutti gli altri nostri
insegnanti, in sordida povertà. Qualche circostanza, probabilmente la malattia
di sua moglie, gli impediva di migliorare le sue entrate accettando dei
pensionanti, come facevano gli altri, e già questa particolarità gli dava una
nota di distinzione di fronte ai colleghi. In più c’era il greco. Noi cinque
prescelti fra i condiscepoli apparivamo a noi stessi come un’aristocrazia
spirituale perché eravamo avviati agli studi superiori, mentre i nostri
compagni si preparavano a divenire artigiani o commercianti; ed ecco che ora
incominciavamo a imparare questa misteriosa antica lingua, ancora più antica,
misteriosa e aristocratica del latino: una lingua che non si apprende per
guadagnar denaro o per girare il mondo, ma solo per fare conoscenza con
Socrate, Platone e Omero. […] Facile non ce lo rese certamente, l’anno
scolastico, questo signor Schmid. Ce lo rese estremamente pesante, spesso senza
necessità. Esigeva molto, almeno da noi «umanisti», e non era solo severo e
spesso duro, ma sovente anche assai lunatico; aveva talvolta accessi d’ira
improvvisa per i quali noi tutti, me compreso, molto lo temevamo, come in un
vivaio gli avannotti possono temere il luccio che li mette in fuga. Questo
l’avevo già provato con altri insegnanti, ma con Schmid feci un’esperienza
nuova: provai, accanto al timore, la reverenza, capii che si può amare e
venerare un uomo anche quando lo si ha come avversario, anche se è lunatico,
ingiusto e terribile. A volte, quando aveva le sue ore nere e guardava con quel
suo viso magro, di sotto i lunghi capelli neri, con espressione sofferente,
tenebrosa e irata, ero costretto a pensare al re Saul e alle sue tempeste. Ma
poi guariva: spianava il volto, tracciava lettere greche sulla lavagna e
diceva, sulla grammatica e sulla lingua greca, cose che, io lo intuivo, erano
più della solita roba scolastica. Del greco io m’innamorai, benché temessi
quelle ore di lezione, e certe lettere come l’ipsilon, lo psi, l’omega, le
tracciavo a volte, ammaliato e compreso, sul mio quaderno come tanti segni
magici. […] |