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Lunario dei giorni di scuola


Appendice sesto

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Tralummescuro

Francesco Guccini

Giunti

 

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Una volta, qui, tutti parlavano dialetto. O quasi tutti. C’erano, ad esempio, le due maestre delle scuole elementari. La prima non conosceva assolutamente il dialetto locale, perché veniva dalla Sardegna, da Nuoro (per favore, si metta l’accento tonico sulla “u” e non sulla “o”, come si sente dire oggi), e aveva sposato un montanaro dei nostri monti, capitato là a fare il carbone di legna. Uno che le fece fare cinque figli, quattro femmine e un maschio tuo quasi coetaneo, e che fumava il toscano tenendo la brace in bocca, abitudine credo presa in mina, perché per la Grande Guerra forse era troppo giovane. La maestra parlava dialetto sì, ma sardo, e ricordi quando conversava con un’anziana che l’aveva seguita dall’isola, la zia Peppa, una più che dignitosa signora che sedeva matronicamente nel primo meriggio dopo mangiato a prendere il fresco impaludata con abiti che definiresti tradizionali sardi (ma forse era la tua fantasia), gonne numerose e amplissime, di colore sul marron chiaro e scuro, e in testa un fazzoletto o un pezzo di stoffa quadrato. Stava all’ombra di questo cedro che sorgeva di fronte alla porta, sotto quel melo salvadgo che spuntava quasi magicamente dal muro, immobile come la Sfinge (solo ogni tanto una mano saettava a scacciare una mosca che aveva osato avvicinarla, e lì capivi che l’anziana era viva), e ti saresti aspettato da un momento all’altro il dilemma di Edipo. Ogni tanto però le due parlavano sardo, e i tanca sa ianna volavano bassi come di sera le rondanine sul fiume, ma il loro dialetto era tutto lì. O sicuramente no, ma tu ricordi tanca sa ianna e basta. E come maestra era inflessibile a pretendere l’eloquio italiano, anche a bacchettate nei diti, perché le maestre d’un tempo usavano allegramente questi strumenti didattici di grande efficacia, e nessuno, né studenti né genitori degli studenti, soprattutto i primi perché a casa poi avrebbero preso il resto, avrebbe trovato qualsivoglia cosa da ridire. Altri tempi e altre educatrici. Anche la seconda non era di provenienza locale, ma veniva dalla profonda Toscana, forse dal pistoiese. E con forte accento toscano affabulava e ragionava, secondo l’invenzione che l’idioma toscano, forse il senese (ma lei senese non era), sarebbe l’italiano perfetto. Si aggiunga che cotesta maestra era di ideologia fascista e, in divisa da non sai cosa del fascismo (capomanipolo? direttrice di squadriglia?), partecipava garrula e fiera a tutte le Feste degli alberi possibili e immaginabili, riempiendo il paese in ogni dove di conifere varie, cercando di trasformarlo in villaggio tirolese e obbedendo alla volontà del Duce, secondo il quale gli abeti in genere avrebbero abbassato la temperatura media dell’Italia rendendo i cittadini più temprati e vigorosi, più nordici e meno mediterranei; parimenti rispettava le regole che il fascismo aveva stabilito in fatto di idiomi, per le quali in Italia bisognava parlare italiano e non dialetto. Forse anche l’infastidiva la velatura emiliana della parlata locale. Così, italiano, e poche balle.

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