L'insegnante Michal
Ben-Naftali
Il marciapiede fu lavato dal sangue. Scrosci di
pioggia, getti d’acqua e spazzini si coalizzarono per ripulire le mattonelle
anche dopo che l’ultimo minuzzolo fu rimosso. Docile, la stretta via riprese ad
accogliere orde di persone, cartacce, mozziconi di sigaretta gettati
distrattamente a terra, carrozzine, biciclette. Bambini che giocavano cadevano
faccia a terra, animali facevano i loro bisogni, bidoni della spazzatura
venivano rimessi vuoti al loro posto. Di tanto in tanto un’ambulanza passava a
sirene spiegate. Foglie cadute venivano spazzate e ammucchiate. Chi ricordava
che in una notte di tempesta di trent’anni fa l’inquilina di un attico di uno
dei vecchi palazzi ancora in piedi si era lanciata nel vuoto? A mente lucida,
con l’inflessibile rigore con il quale era solita fare tutto – pagare le
bollette, nuotare in piscina, insegnare l’inglese –, con la stessa gelida
brutalità con la quale raschiava la lavagna con le unghie per farci stare
zitti, la professoressa d’inglese si era tolta la vita.
Nessuno conosceva la storia di Elsa Weiss. Pochi la chiamavano per nome. Ci rivolgevamo a lei come ci si rivolge a un generale, a uno sceriffo, o a un dignitario del quale occorre preannunciare l’arrivo. Era stata lei stessa a creare quell’aura di autorità dedicandosi al suo incarico con uno zelo che non riservava a niente o a nessuno, né ai suoi superiori, né agli allievi. Come se in esso ci fosse qualcosa di eccelso, di misterioso, che non era del tutto chiaro neppure a lei. Ci riferivamo a lei come alla dea della collera, a un’insegnante-Gorgone che poteva mostrarsi benevola ma al tempo stesso riversare su di noi una marea di compiti, quasi volesse tartassarci per verificare le nostre capacità di sopportazione e di resistenza e ottenere, fondamentalmente, la nostra fiducia. Elsa Weiss non aveva lasciato nessuna testimonianza di sé. Rifiutava di parlare, di conversare, di tenere banco o di educare. Il suo campo d’azione era limitato. Non chiedeva di conquistare nuovi territori, di interferire nei nostri gusti, di influenzare il nostro destino, di plasmare la nostra sensibilità morale o la nostra coscienza. Mai la sentimmo esprimere una teoria filosofica o un’opinione politica ponderata che rivelasse qualcosa del suo modo di concepire il sapere, la verità, la fede. Potevamo solo fare supposizioni, immaginare che non fosse credente, che non osservasse le regole della Casherut o lo Shabbat. La sua rabbia non era quella di un credente, non la si poteva placare, possedeva una sfumatura diversa. O forse era vero il contrario, anche se tutto, in lei, esprimeva insofferenza verso l’autorità. Se c’era qualcosa di religioso in lei, questo si manifestava nella devozione e nel fervore estremo con i quali affrontava i suoi impegni e nella fede appassionata in ciò che faceva. Si sarebbe potuto dire che dava l’anima, se non che, quasi sicuramente, non era l’anima che dava, ma qualcos’altro. Negli album ricordo delle classi in cui aveva insegnato compariva un’unica immagine di lei, di quando aveva più o meno cinquant’anni. Una rara foto-tessera scattata due decenni dopo il suo arrivo in Israele, in cui il suo viso, dall’espressione intensa, non cercava di convogliare un messaggio o una visione, piuttosto qualcosa che conferiva al termine “insegnante” un suo peso specifico. Il viso della professoressa Weiss era lo specchio della sua vita. Su di esso erano impressi la fierezza e il rigore di chi raramente parla con qualcuno. Era un viso di Madonna e di sacerdotessa, angosciato e tormentato, che un tempo era stato pervaso da un timore esistenziale e negli anni si era trasformato in una maschera impenetrabile, dalla quale si era indotti a distogliere lo sguardo. Era impossibile osservarlo a lungo senza sentirsi a disagio. |