Storia
di una vita
Aharon
Appelfeld
Probabilmente ogni città ha avuto il suo Janusz
Korczak.
Da noi fu il direttore del collegio, il maestro Gustav Gutsmann, a
condurre i bambini ciechi alla stazione. Era basso, alto quanto i bambini e
molto svelto. Era famoso per il suo metodo d’insegnamento: insegnava tutto in musica.
Dal collegio per bambini ciechi si diffondeva sempre musica. Riteneva che il
canto fosse non solo uno strumento buono per far ricordare, ma che suscitasse
anche sensibilità nei confronti degli uomini. Tutti i bambini del collegio
parlavano in tono melodico, anche quando si rivolgevano l’uno all’altro. La
fragilità del loro corpo si fondeva con l’amenità del loro modo di parlare. Nel
pomeriggio stavano seduti sulle scale e cantavano. Cantavano canzoni classiche
e canzoni popolari in yiddish. Le loro voci erano armoniose e dolci, e i
passanti sostavano per ore vicino ai cancelli ad ascoltarli. Gustav Gutsmann
era un noto comunista ed era stato arrestato più volte. Nei giorni in cui era
in stato di arresto, il suo vice, anche lui basso e comunista, lo sostituiva.
Se non fosse stato per la sua dedizione, il comitato direttivo dell’istituto
l’avrebbe licenziato. Nel comitato direttivo sedevano rispettabili
commercianti, i quali sostenevano che Gustav insegnava il comunismo ai bambini,
che la sua influenza era grande e che, una volta cresciuti, avrebbero diffuso
quel veleno. I commercianti furbi del comitato non avevano questo timore;
sostenevano che ciò che insegnava non era importante, l’importante era la sua
dedizione. Un comunista cieco dalla nascita non rappresenta pericolo alcuno,
anzi l’ideologia nella sua bocca suona ridicola. Le discussioni nel comitato
non cessarono. Uno dei commercianti, la cui offerta ammontava alla metà del
bilancio dell’istituto, era un uomo religioso. Costui impose due condizioni:
studi religiosi e l’osservanza del Sabato. La discussione durò a lungo. Alla
fine si giunse a un compromesso: studi religiosi due volte alla settimana e la
preghiera alla vigilia del Sabato. Il maestro di religione che fu assunto per
l’istituto era il figlio del rabbino di Žadov. Veniva due volte alla settimana
per insegnare ai bambini l’ebraico e il Pentateuco, e di venerdì conduceva la
preghiera. I bambini amavano il suo insegnamento e le preghiere. In breve tempo
la loro preghiera del venerdì divenne nota in tutta la città. La gente si
radunava vicino ai cancelli e ascoltava stupefatta. Gustav Gutsmann non si
arrese. Sosteneva che la preghiera dei bambini non era una preghiera ma un
canto. È il canto a dirigere la loro vita, non la fede religiosa. La fede
religiosa è morta e sepolta e da allora esiste soltanto la fede nell’uomo,
nella sua capacità di cambiare, nella sua capacità di costruire una società
giusta e di sacrificarsi per il prossimo. Inculcava questa fede ai bambini
giorno e notte e, per sostituire la recitazione dello Shemah la sera, compose
una canzone intitolata «Ascolta, uomo», nella quale esortava l’uomo a dare del
suo ai bisognosi, ovunque fossero. Come ogni uomo che crede, anche Gutsmann era
un fanatico. Condusse la sua guerra contro il figlio del rabbino di Žadov con
tutti i mezzi. Una cosa gli era però vietata: predicare che la religione è
l’oppio dei popoli. In effetti evitava di proclamarlo in pubblico, ma di
nascosto sussurrava ciò che sussurrava. La contesa finì nel 1941. L’istituto
per ciechi, che era situato nella parte povera della città, divenne d’un tratto
il centro del ghetto. Dalle sue finestre si spandevano fino a notte canti che
penetravano nel ghetto gremito, sospesi sulla vita perseguitata. Nessuno sapeva
cosa avrebbe portato l’indomani, ma i bambini ciechi a quanto pare sapevano più
di noi. Indovinarono che il futuro non sarebbe stato roseo. Una loro canzone,
«Morte alla morte», risuonava ogni sera. Col tempo divenne l’inno
dell’istituto. Era una canzone ritmata, che suonava come un energico lamento.
Gutsmann lavorava con i bambini giorno e notte. Le sue lezioni erano per la
maggior parte di musica. Negli intervalli inculcava la sua ideologia: le
difficili condizioni in cui ci troviamo non annienteranno in noi la fiducia nell’uomo.
Aiuteremo i deboli anche se dovremo dividere con loro la nostra fetta di pane.
Il vero comunismo non è solo dividere con giustizia, ma anche dare con tutto il
cuore. Il 13 ottobre 1942, il direttore della scuola per ciechi ricevette
l’ordine di condurre i bambini alla stazione ferroviaria. I bambini indossarono
gli abiti della festa, misero nello zaino un libro in braille, un piatto, una
tazza, un cucchiaio, una forchetta e dei vestiti di ricambio. Gutsmann spiegò
loro che la strada per la stazione non era lunga e che avrebbero fatto cinque
soste lungo il percorso. Durante le soste avrebbero cantato canzoni classiche e
canzoni in yiddish. Giunti alla stazione avrebbero cantato l’inno. I bambini
erano emozionati, ma non spaventati. I loro occhi erano sgranati per
l’emozione. Avevano capito che da allora avrebbero richiesto loro cose mai
chieste prima. La prima fermata fu il pozzo imperiale. Era famoso in città per
la sua buona acqua. Gli ebrei osservanti non lo usavano, perché era pubblico e
il padrone dell’osteria e il macellaio non ebreo ne attingevano acqua. Alla
prima fermata i bambini cantarono canzoni di Schubert. Il vento soffiava vicino
al pozzo e i bambini si sforzavano di alzare la voce. Non c’era nessuno oltre a
loro, e il loro canto suonava come una preghiera. Gutsmann era attento a non
fare osservazioni ai bambini fuori dalle mura dell’istituto. Questa volta fece
un’eccezione e disse: «Il canto è sacro e bisogna essere precisi anche in
condizioni difficili». Anche alla seconda fermata, nella Piazza dei Lavoratori,
non c’era nessuno ad aspettarli. I bambini cantarono una canzone di Bach, e
Gutsmann fu soddisfatto del loro canto. Nella Piazza dei Lavoratori il primo
maggio si riunivano i comunisti ebrei. Il raduno durava di solito solo pochi minuti,
perché spuntavano i poliziotti, picchiavano i dimostranti e li disperdevano.
Questa volta nella piazza non c’era un’anima. Alcuni ragazzi ucraini
arrampicati sugli alberi gridarono: «Gli ebrei ai vagoni!» e scagliarono dei
sassi. Alla terza fermata le donne portarono ai bambini dell’acqua e delle
fette di pane con l’olio. I bambini si rallegrarono di questa calda accoglienza
e cantarono canzoni in yiddish. Alla fine del canto le donne non li lasciavano
andare. Gridarono: «Non vi daremo i nostri bambini!» Gutsmann intervenne e
disse: «Noi andremo con tutti. Non siamo diversi. Ciò che accadrà a tutti
accadrà anche a noi». Una donna non si trattenne e gli gridò: «Comunista!» Alla
quarta fermata, vicino al recinto del ghetto, aspettavano molte persone commosse
che li riempirono di doni. Un uomo gridò a gran voce da un terrazzo: «Noi vi
amiamo, bambini, e tra poco ci rivedremo. Noi il vostro canto non lo
dimenticheremo mai. Voi eravate i giovani sacerdoti del nostro ghetto». I
bambini cantarono canzoni classiche alternate a canzoni popolari. Cantarono
perfino un brano di un’opera di Verdi. Di nuovo le donne li circondarono e non
permisero di andare oltre. Ma lì non erano già più padroni di se stessi. I
soldati vicino al recinto li colpirono, e il canto tacque immediatamente. Ma
sulla stretta strada per la stazione i bambini si fermarono e ricominciarono a
cantare. I guardiani, a quanto pare sorpresi, permisero loro di cantare, ma non
a lungo. Immediatamente alzarono su di loro le fruste e i bambini, che si tenevano
per mano, tremarono come un sol corpo. «Non abbiate paura, bambini» sussurrò
Gutsmann, e i bambini riuscirono a controllare il proprio dolore. Alla stazione
fecero in tempo a cantare l’inno per intero, e immediatamente furono spinti nei
vagoni. (...)
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