Gargantua
e Pantagruele
François
Rabelais
(…)
Come Gargantua fu istruito da un teologo in lettere
latine
Al sentire
questi discorsi, quel bravuomo di Grangola fu rapito d’ammirazione,
considerando l’alto giudizio e il meraviglioso intelletto di suo figlio
Gargantua. E disse alle governanti: – Filippo, re di Macedonia, conobbe il
senno di suo figlio Alessandro all’abilità con cui riuscí a domare un cavallo.
Si trattava infatti di un animale cosí terribile e disfrenato che nessuno osava
montarci su, perché faceva fare la capriola a tutti i suoi cavalieri, rompendo
a chi l’osso del collo, a chi le gambe, a chi il cervello e a chi le mandibole.
Il che considerando Alessandro, nell’ippodromo (che era il luogo dove si
facevan trottare e volteggiare i cavalli) s’accorse che il furore di quella
bestia era causato semplicemente dallo spavento che gli veniva dalla sua stessa
ombra. Per cui, salendovi sú, lo fece andare sempre contro sole, cosí che
l’ombra veniva a cadergli di dietro; e in tal maniera ridusse il cavallo
docilissimo alla sua volontà. Da questo fatto dedusse suo padre il divino
intelletto che c’era in lui, e lo fece ottimamente istruire da Aristotile, che
era stimato allora il primo tra i filosofi di Grecia.
«Ma io per me vi dico,
che da questo solo discorso che ho tenuto ora davanti a voi con mio figlio
Gargantua, riconosco nel suo intelletto alcunché di divino, tanto lo vedo
acuto, sottile, profondo e sereno; e perverrà a un altissimo grado di sapienza,
se sarà bene istruito. E cosí voglio affidarlo a qualche uomo di scienza, per
addottrinarlo secondo la sua capacità, e non starò a guardare alla spesa». E
difatti gli diedero per maestro un gran dottore in teologia, chiamato Mastro
Thubal Holoferne, il quale gli imparò l’alfabeto cosí bene che il bambino
sapeva dirlo a memoria anche a rovescio; e vi impiegò cinque anni e tre mesi.
Poi gli lesse il Donato, il Faceto, il Teodoleto, e Alanus in Parabolis; e vi
impiegò tredici anni, sei mesi e due settimane. Ma dovete sapere che nel
frattempo gli insegnava a scrivere in gotico, e scriveva lui stesso tutti i
suoi libri: perché non era ancora in uso l’arte della stampa. E portava di
solito con sé un grosso scrittoio, pesante piú di settemila quintali, il cui
astuccio per le penne era grosso e lungo come quei colonnoni della chiesa di
Enay, e vi stava attaccato con grosse catene di ferro un calamaio della
capacità d’una botte.
Poi gli lesse De modis significandi, coi commenti di Scopavento,
Facchino, Buonanulla, Galeotto, Gian di Bue, e del Billonius e del
Fregnacciandus, e un mucchio d’altri; e vi impiegò un po’ piú di diciott’anni e
undici mesi. E lo imparò cosí bene che, messo al paragone, lo recitava a
memoria alla rovescia, e dimostrava a menadito alla mamma che de modis
significandi non erat scientia.
Poi gli lesse il Composito, impiegandovi ben
sedici anni e due mesi, allorché il suo detto precettore venne a morte; e ciò
fu il mille e quattrocento e venti, perché gli venne al cazzo un accidenti.
Dopo di lui, ebbe un altro vecchio catarroso, chiamato Mastro Salamin Legato;
che gli lesse Uguzio, Eberardo, Dei Grecismi, il Dottrinale, le Parti, il Quid
est, il Supplementum; e il Marmottreto, De moribus in mensa servandis; Seneca,
De quatuor virtutibus cardinalibus; il Passavanti, cum Commento; e il Dormi
secure, per le feste. E alcuni altri ancora di simil farina...
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