Fino
a quando la mia stella brillerà Daniela
Palumbo
Un giorno, dopo che ero stata espulsa, la maestra
Cesarina venne a casa a parlare con papà, glielo aveva chiesto lui. Io mi
nascosi per ascoltare di nascosto. Ero sicura che la maestra avrebbe detto a
papà che c’era stato un errore, che il giorno dopo sarei potuta tornare al mio
banco, che quelle regole erano orribili e assurde, forse gli avrebbe anche
detto che le mancavo e che mancavo a tutta la classe. Chissà quante amiche
speravano di vedermi tornare in classe con loro, come prima delle leggi
razziali… Invece, sentii l’appello accorato di papà che diceva che era
un’ingiustizia tenermi lontana dalla scuola e che io ci soffrivo. E poi
ascoltai la maestra Cesarina che gli rispondeva: «Sì, ma scusi io cosa c’entro?
Non compete a me decidere se Liliana può tornare oppure no. Non le ho mica
fatte io le leggi». Ascoltavo. Quelle parole continuavano a ronzarmi nella
testa come un’ape fastidiosa. Non le ho fatte io. Be’, sì certo, in effetti non
le aveva fatte lei. Come darle torto? Però, che delusione provai in quel
momento. Nella sua voce non c’era partecipazione, ne ero certa, non c’era un
filo di dispiacere. Non disse nemmeno che le mancavo, non riferì niente sulle
mie compagne, nessun saluto, nessun ricordo. Ero scivolata via in silenzio e il
mio banco vuoto non era una gran perdita: in fondo era questo che avevo appena
sentito. Lei non c’entrava, non era un problema suo. Così la mia maestra si
puliva la coscienza. Se ne lavava le mani. Come se la mia espulsione da scuola
non la riguardasse affatto. Me ne andai prima di vederla uscire di casa. Lei
non chiese di salutarmi. |