Don Camillo
Giovanni Guareschi
(…)
Il monumento
nazionale del paese era la maestra vecchia, una donnetta piccola e magra che
tutti avevano sempre visto perché aveva insegnato l’abbiccì ai padri, ai figli
e ai figli dei figli, e adesso viveva sola in una casetta un po’ fuori
dell’abitato e ce la faceva a tirare avanti con la pensione soltanto perché,
quando mandava nelle botteghe a comprare mezz’etto di burro o di carne o altra
roba da mangiare, le facevano pagare il mezz’etto ma gliene davano sempre due o
tre etti.
Per le uova era un pasticcio perché anche se una maestra ha due o
tremila anni e se ha perso la nozione del peso, quando domanda un paio d’uova e
le danno invece sei uova, se ne accorge sempre. E allora il dottore rimediò al
guaio perché un giorno che la incontrò le disse che la trovava molto giù e le
fece delle domande e poi le ordinò di eliminare le uova.
La maestra vecchia
faceva soggezione a tutti, e anche don Camillo cercava di girarle alla larga
perché, dal giorno in cui disgraziatamente il suo cane era saltato nell’orto
della signora Cristina, e le aveva fracassato un vaso di gerani, tutte le volte
che la vecchia incontrava don Camillo lo minacciava col bastone e gli gridava
che c’è un Dio anche per i preti bolscevichi. Non poteva mandar giù Peppone
che, quando era ragazzetto, veniva a scuola con le tasche piene di rane, di
uccelletti e altre porcherie, e che, una mattina, era arrivato a cavalcioni di
una vacca, assieme a quell’altro zuccone del Brusco che gli faceva da
palafreniere.
Usciva di casa pochissime volte e non parlava mai con nessuno
perché aveva sempre odiato i pettegolezzi, ma quando le dissero che Peppone era
diventato sindaco e faceva i proclami, allora uscì. E quando fu arrivata in
piazza si fermò davanti a un manifesto appiccicato al muro, inforcò gli
occhiali e lo lesse tutto, da cima a fondo, con fiero cipiglio. Poi aperse la
borsetta, tirò fuori il lapis rosso e blu, segnò gli errori e scrisse in fondo
al manifesto: «4», «Asino!» E dietro c’erano i più potenti «rossi» del paese
che stavano a guardare cupi in volto, a braccia conserte e con le mascelle
serrate. Ma nessuno ebbe il coraggio di dire niente. La legnaia della signora
Cristina era nell’orto dietro la casa, ed era sempre ben fornita perché, di
notte, spesso qualcuno scavalcava la siepe e andava a buttare un paio di
ciocchi o un fascinotto nel mucchio; ma l’inverno fu freddo e la maestra aveva
troppi anni sulle piccole spalle curve per poterne uscire senza le costole
rotte.
E così non la si vide più in giro, e lei non si accorgeva neanche,
quando mandava a comprare due uova, che gliene mandavano otto. E una sera,
mentre Peppone era in seduta consiliare, venne qualcuno a dirgli che la signora
Cristina lo aveva fatto chiamare e che si sbrigasse perché lei non aveva tempo
di aspettare i suoi comodi per morire. Don Camillo era stato chiamato prima, ed
era corso subito perché sapeva che oramai era questione di ore. Aveva trovato
un grande letto bianco con dentro una vecchina così piccola e così magra che
pareva un bambino. Ma non era affatto svanita, la maestra vecchia, e, appena
intravide la grossa massa nera di don Camillo, fece un risolino. «Vi
piacerebbe, eh, che adesso io vi confessassi che ho fatto un sacco di
porcherie! E invece niente, caro il mio signor parroco. Be’: vi ho chiamato
perché voglio morire con l’anima pulita, senza rancori. Perciò vi perdono di
avermi rotto il vaso di gerani.» «Vi perdono di avermi chiamato “prete
bolscevico” sussurrò don Camillo. «Grazie, ma non c’era neanche bisogno»
ribatté la vecchina. «Perché nelle cose conta lo spirito col quale sono fatte,
e io vi davo del prete bolscevico così, come davo dell’asino al sindaco
Peppone. Senza intenzione di offendere.»
Don Camillo con dolcezza cominciò un
lungo discorso per far capire alla signora Cristina che quello era il momento
di abbandonare ogni umana prosopopea, anche la più piccola, perché, per avere
la speranza di andare in Paradiso... «La speranza?» lo interruppe la signora
Cristina. «Ma io ho la sicurezza di andarci!» «È questo un peccato di
presunzione» disse dolcemente don Camillo. «Nessun mortale può avere la
sicurezza di aver vissuto sempre secondo le leggi di Dio.» La signora Cristina
sorrise. «Nessun mortale eccetto la signora Cristina» rispose. «Perché alla
signora Cristina questa notte Gesù Cristo è venuto a dire che lei andrà in
Paradiso! Quindi la signora Cristina è sicura. A meno che non ne sappiate più
voi di Gesù Cristo!»
Davanti a una fede così formidabile, così precisa, così
inequivocabile, don Camillo rimase senza fiato e si mise in un angolo a dire le
sue preghiere. Poi arrivò Peppone. «Ti perdono per via delle rane e delle altre
porcherie» disse la vecchia maestra. «Io ti conosco e so che, in fondo, non sei
cattivo: pregherò Dio che ti perdoni i tuoi delitti grossi.» Peppone allargò le
braccia. «Signora» balbettò «io non ho mai commesso dei delitti.» «Non dire
bugie!» ribatté severa la signora Cristina. «Tu e gli altri bolscevichi come te
avete mandato via il Re, relegandolo in un’isoletta lontana per farlo morire di
fame assieme ai suoi bambini.» La maestra si mise a piangere, e Peppone a veder
piangere una vecchina così piccola sentì la voglia di mettersi a urlare. «Non è
vero» esclamò. «È vero» rispose la maestra «me l’ha detto il signor Biletti che
sente la radio e legge i giornali.» «Domani gli spacco la faccia a quel
reazionario sporco!» mugolò Peppone.
«Don Camillo, diteglielo voi che non è
vero!» Don Camillo si appressò. «Vi hanno informata male» spiegò dolcemente.
«Son tutte bugie. Né isole deserte né morti di fame. Tutte bugie, ve lo
assicuro.» «Meno male» sospirò rasserenata la vecchina. «E poi» esclamò Peppone
«mica soltanto noi l’abbiamo mandato via! C’è stata la votazione ed è risultato
che erano più quelli che non lo volevano che quelli che lo volevano, e allora è
andato via e nessuno gli ha detto o fatto niente. Così funziona la democrazia!»
«Ma che democrazia!» rispose severa la signora Cristina. «I re non si mandano
via!» «Scusi» rispose confuso Peppone. E cosa volete che rispondesse?
Poi la
signora Cristina si riposò un poco e parlò. «Tu sei il sindaco» disse «e questo
è il mio testamento. La casa non è mia e i miei pochi stracci dalli a chi ne ha
bisogno. I miei libri tienli tu che ne hai bisogno. Devi fare molti esercizi di
comporre e studiare i verbi.» «Sissignora» rispose Peppone. «Voglio un funerale
senza musica perché non è una cosa seria. E voglio un funerale senza carro,
come nei tempi civili. Con la cassa portata a spalle, e sulla cassa voglio la
bandiera.» «Sissignora» rispose Peppone. «La mia bandiera» disse la signora
Cristina. «Quella che è lì a fianco dell’armadio. La mia bandiera, con lo
stemma.» E fu tutto, perché poi la signora Cristina sussurrò: «Dio ti benedica
anche se sei bolscevico, ragazzo mio». E poi chiuse gli occhi e non li riaperse
più. Peppone, la mattina dopo, fece chiamare in Comune tutti i rappresentanti
dei partiti. E quando li ebbe davanti disse che la signora Cristina era morta,
e il Comune, per esprimerle la riconoscenza del popolo, le avrebbe tributato
solenni funerali. «Questo ve lo dico come sindaco, e come sindaco e interprete
della volontà di tutta la cittadinanza, vi ho chiamato qui perché domani non mi
si rimproveri che faccio di mia testa. Il fatto è che la signora Cristina ha
espresso come sua ultima volontà di essere portata a spalle nella bara e sopra
ci vuole la bandiera con lo stemma. Qui ognuno dica come la pensa. I
rappresentanti dei partiti reazionari fanno il piacere di stare zitti perché
tanto sappiamo benissimo che loro sarebbero felicissimi anche se ci fosse la
banda che suona la cosiddetta marcia reale.»
Parlò per primo quello del partito
d’azione, e parlava bene perché era un laureato. «Per riguardo a un solo defunto,
noi non possiamo recar offesa ai centomila morti, col sacrificio dei quali il
popolo ha conquistato la repubblica!» E via discorrendo, tutto di filato con
molto calore, concludendo che la signora Cristina aveva lavorato con la
monarchia, ma per la patria, e quindi niente di più giusto che sulla bara fosse
distesa la bandiera che oggi rappresenta la patria. «Bene!» approvò Begollini,
il socialista che era più marxista di Marx. «È finita l’era dei sentimentalismi
e delle nostalgie: se voleva la bandiera con lo stemma doveva morire prima!»
«Be’, questa è una stupidaggine!» esclamò il farmacista, capo dei repubblicani
storici. «Si deve dire piuttosto che oggi la pubblica ostentazione di
quell’emblema in un funerale, potrebbe suscitare risentimenti che snaturerebbero
la cerimonia trasformandola in una manifestazione politica e diminuendone, se
non distruggendone, il nobile significato.» Poi fu la volta del rappresentante
dei democristiani. «La volontà dei morti è sacra» disse con voce solenne. «E la
volontà della defunta signora è particolarmente sacra per noi perché tutti
l’amiamo e la veneriamo e guardiamo alla sua attività prodigiosa come a un
apostolato. E appunto per questa venerazione e per questo rispetto alla sua
memoria, siamo dell’avviso di cercare di evitare ogni minimo atto irrispettoso
che, pur rivolto ad altro oggetto, suonerebbe come offesa alla sacra memoria
dell’estinta. Perciò anche noi ci associamo agli altri nello sconsigliare l’uso
della vecchia bandiera.» Peppone approvò gravemente con un cenno del capo. Poi
si rivolse a don Camillo, il quale era stato convocato anche lui. E don Camillo
era pallido. «Cosa ne pensa il signor parroco?» «Il signor parroco prima di
parlare aspetta di sentire quale sia il parere del signor sindaco.»
Peppone si raschiò
un poco in gola e prese la parola. «In qualità di sindaco» disse «vi ringrazio
per la vostra collaborazione, e come sindaco approvo il vostro parere di
evitare la bandiera richiesta dalla defunta. Però, siccome in questo paese non
comanda il sindaco ma comandano i comunisti, come capo dei comunisti vi dico
che me ne infischio del vostro parere, e domani la signora Cristina andrà al
cimitero con la bandiera che vuole lei perché io rispetto più lei morta che voi
tutti vivi, e se qualcuno ha qualcosa da obiettare lo faccio volare giù dalla
finestra! Il signor prete ha qualcosa da dire?» «Cedo alla violenza» rispose
allargando le braccia don Camillo che era rientrato nella grazia di Dio. E così
il giorno dopo la signora Cristina andò al cimitero nella bara portata a spalla
da Peppone, dal Brusco, dal Bigio e dal Fulmine. E tutt’e quattro avevano al
collo i loro fazzoletti rossi come il fuoco, ma sulla bara c’era la bandiera
della signora maestra. Cose che succedono là, in quel paese strampalato dove il
sole picchia martellate in testa alla gente e la gente ragiona più con la
stanga che col cervello, ma dove, almeno, si rispettano i morti.
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