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Lunario dei giorni di scuola


Appendice trentaseiesimo

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Don Camillo

Giovanni Guareschi

(…)

 Il monumento nazionale del paese era la maestra vecchia, una donnetta piccola e magra che tutti avevano sempre visto perché aveva insegnato l’abbiccì ai padri, ai figli e ai figli dei figli, e adesso viveva sola in una casetta un po’ fuori dell’abitato e ce la faceva a tirare avanti con la pensione soltanto perché, quando mandava nelle botteghe a comprare mezz’etto di burro o di carne o altra roba da mangiare, le facevano pagare il mezz’etto ma gliene davano sempre due o tre etti.
Per le uova era un pasticcio perché anche se una maestra ha due o tremila anni e se ha perso la nozione del peso, quando domanda un paio d’uova e le danno invece sei uova, se ne accorge sempre. E allora il dottore rimediò al guaio perché un giorno che la incontrò le disse che la trovava molto giù e le fece delle domande e poi le ordinò di eliminare le uova.
La maestra vecchia faceva soggezione a tutti, e anche don Camillo cercava di girarle alla larga perché, dal giorno in cui disgraziatamente il suo cane era saltato nell’orto della signora Cristina, e le aveva fracassato un vaso di gerani, tutte le volte che la vecchia incontrava don Camillo lo minacciava col bastone e gli gridava che c’è un Dio anche per i preti bolscevichi. Non poteva mandar giù Peppone che, quando era ragazzetto, veniva a scuola con le tasche piene di rane, di uccelletti e altre porcherie, e che, una mattina, era arrivato a cavalcioni di una vacca, assieme a quell’altro zuccone del Brusco che gli faceva da palafreniere.
Usciva di casa pochissime volte e non parlava mai con nessuno perché aveva sempre odiato i pettegolezzi, ma quando le dissero che Peppone era diventato sindaco e faceva i proclami, allora uscì. E quando fu arrivata in piazza si fermò davanti a un manifesto appiccicato al muro, inforcò gli occhiali e lo lesse tutto, da cima a fondo, con fiero cipiglio. Poi aperse la borsetta, tirò fuori il lapis rosso e blu, segnò gli errori e scrisse in fondo al manifesto: «4», «Asino!» E dietro c’erano i più potenti «rossi» del paese che stavano a guardare cupi in volto, a braccia conserte e con le mascelle serrate. Ma nessuno ebbe il coraggio di dire niente. La legnaia della signora Cristina era nell’orto dietro la casa, ed era sempre ben fornita perché, di notte, spesso qualcuno scavalcava la siepe e andava a buttare un paio di ciocchi o un fascinotto nel mucchio; ma l’inverno fu freddo e la maestra aveva troppi anni sulle piccole spalle curve per poterne uscire senza le costole rotte.
E così non la si vide più in giro, e lei non si accorgeva neanche, quando mandava a comprare due uova, che gliene mandavano otto. E una sera, mentre Peppone era in seduta consiliare, venne qualcuno a dirgli che la signora Cristina lo aveva fatto chiamare e che si sbrigasse perché lei non aveva tempo di aspettare i suoi comodi per morire. Don Camillo era stato chiamato prima, ed era corso subito perché sapeva che oramai era questione di ore. Aveva trovato un grande letto bianco con dentro una vecchina così piccola e così magra che pareva un bambino. Ma non era affatto svanita, la maestra vecchia, e, appena intravide la grossa massa nera di don Camillo, fece un risolino. «Vi piacerebbe, eh, che adesso io vi confessassi che ho fatto un sacco di porcherie! E invece niente, caro il mio signor parroco. Be’: vi ho chiamato perché voglio morire con l’anima pulita, senza rancori. Perciò vi perdono di avermi rotto il vaso di gerani.» «Vi perdono di avermi chiamato “prete bolscevico” sussurrò don Camillo. «Grazie, ma non c’era neanche bisogno» ribatté la vecchina. «Perché nelle cose conta lo spirito col quale sono fatte, e io vi davo del prete bolscevico così, come davo dell’asino al sindaco Peppone. Senza intenzione di offendere.»
Don Camillo con dolcezza cominciò un lungo discorso per far capire alla signora Cristina che quello era il momento di abbandonare ogni umana prosopopea, anche la più piccola, perché, per avere la speranza di andare in Paradiso... «La speranza?» lo interruppe la signora Cristina. «Ma io ho la sicurezza di andarci!» «È questo un peccato di presunzione» disse dolcemente don Camillo. «Nessun mortale può avere la sicurezza di aver vissuto sempre secondo le leggi di Dio.» La signora Cristina sorrise. «Nessun mortale eccetto la signora Cristina» rispose. «Perché alla signora Cristina questa notte Gesù Cristo è venuto a dire che lei andrà in Paradiso! Quindi la signora Cristina è sicura. A meno che non ne sappiate più voi di Gesù Cristo!»
Davanti a una fede così formidabile, così precisa, così inequivocabile, don Camillo rimase senza fiato e si mise in un angolo a dire le sue preghiere. Poi arrivò Peppone. «Ti perdono per via delle rane e delle altre porcherie» disse la vecchia maestra. «Io ti conosco e so che, in fondo, non sei cattivo: pregherò Dio che ti perdoni i tuoi delitti grossi.» Peppone allargò le braccia. «Signora» balbettò «io non ho mai commesso dei delitti.» «Non dire bugie!» ribatté severa la signora Cristina. «Tu e gli altri bolscevichi come te avete mandato via il Re, relegandolo in un’isoletta lontana per farlo morire di fame assieme ai suoi bambini.» La maestra si mise a piangere, e Peppone a veder piangere una vecchina così piccola sentì la voglia di mettersi a urlare. «Non è vero» esclamò. «È vero» rispose la maestra «me l’ha detto il signor Biletti che sente la radio e legge i giornali.» «Domani gli spacco la faccia a quel reazionario sporco!» mugolò Peppone.
«Don Camillo, diteglielo voi che non è vero!» Don Camillo si appressò. «Vi hanno informata male» spiegò dolcemente. «Son tutte bugie. Né isole deserte né morti di fame. Tutte bugie, ve lo assicuro.» «Meno male» sospirò rasserenata la vecchina. «E poi» esclamò Peppone «mica soltanto noi l’abbiamo mandato via! C’è stata la votazione ed è risultato che erano più quelli che non lo volevano che quelli che lo volevano, e allora è andato via e nessuno gli ha detto o fatto niente. Così funziona la democrazia!» «Ma che democrazia!» rispose severa la signora Cristina. «I re non si mandano via!» «Scusi» rispose confuso Peppone. E cosa volete che rispondesse?
Poi la signora Cristina si riposò un poco e parlò. «Tu sei il sindaco» disse «e questo è il mio testamento. La casa non è mia e i miei pochi stracci dalli a chi ne ha bisogno. I miei libri tienli tu che ne hai bisogno. Devi fare molti esercizi di comporre e studiare i verbi.» «Sissignora» rispose Peppone. «Voglio un funerale senza musica perché non è una cosa seria. E voglio un funerale senza carro, come nei tempi civili. Con la cassa portata a spalle, e sulla cassa voglio la bandiera.» «Sissignora» rispose Peppone. «La mia bandiera» disse la signora Cristina. «Quella che è lì a fianco dell’armadio. La mia bandiera, con lo stemma.» E fu tutto, perché poi la signora Cristina sussurrò: «Dio ti benedica anche se sei bolscevico, ragazzo mio». E poi chiuse gli occhi e non li riaperse più. Peppone, la mattina dopo, fece chiamare in Comune tutti i rappresentanti dei partiti. E quando li ebbe davanti disse che la signora Cristina era morta, e il Comune, per esprimerle la riconoscenza del popolo, le avrebbe tributato solenni funerali. «Questo ve lo dico come sindaco, e come sindaco e interprete della volontà di tutta la cittadinanza, vi ho chiamato qui perché domani non mi si rimproveri che faccio di mia testa. Il fatto è che la signora Cristina ha espresso come sua ultima volontà di essere portata a spalle nella bara e sopra ci vuole la bandiera con lo stemma. Qui ognuno dica come la pensa. I rappresentanti dei partiti reazionari fanno il piacere di stare zitti perché tanto sappiamo benissimo che loro sarebbero felicissimi anche se ci fosse la banda che suona la cosiddetta marcia reale.»
Parlò per primo quello del partito d’azione, e parlava bene perché era un laureato. «Per riguardo a un solo defunto, noi non possiamo recar offesa ai centomila morti, col sacrificio dei quali il popolo ha conquistato la repubblica!» E via discorrendo, tutto di filato con molto calore, concludendo che la signora Cristina aveva lavorato con la monarchia, ma per la patria, e quindi niente di più giusto che sulla bara fosse distesa la bandiera che oggi rappresenta la patria. «Bene!» approvò Begollini, il socialista che era più marxista di Marx. «È finita l’era dei sentimentalismi e delle nostalgie: se voleva la bandiera con lo stemma doveva morire prima!» «Be’, questa è una stupidaggine!» esclamò il farmacista, capo dei repubblicani storici. «Si deve dire piuttosto che oggi la pubblica ostentazione di quell’emblema in un funerale, potrebbe suscitare risentimenti che snaturerebbero la cerimonia trasformandola in una manifestazione politica e diminuendone, se non distruggendone, il nobile significato.» Poi fu la volta del rappresentante dei democristiani. «La volontà dei morti è sacra» disse con voce solenne. «E la volontà della defunta signora è particolarmente sacra per noi perché tutti l’amiamo e la veneriamo e guardiamo alla sua attività prodigiosa come a un apostolato. E appunto per questa venerazione e per questo rispetto alla sua memoria, siamo dell’avviso di cercare di evitare ogni minimo atto irrispettoso che, pur rivolto ad altro oggetto, suonerebbe come offesa alla sacra memoria dell’estinta. Perciò anche noi ci associamo agli altri nello sconsigliare l’uso della vecchia bandiera.» Peppone approvò gravemente con un cenno del capo. Poi si rivolse a don Camillo, il quale era stato convocato anche lui. E don Camillo era pallido. «Cosa ne pensa il signor parroco?» «Il signor parroco prima di parlare aspetta di sentire quale sia il parere del signor sindaco.»
Peppone si raschiò un poco in gola e prese la parola. «In qualità di sindaco» disse «vi ringrazio per la vostra collaborazione, e come sindaco approvo il vostro parere di evitare la bandiera richiesta dalla defunta. Però, siccome in questo paese non comanda il sindaco ma comandano i comunisti, come capo dei comunisti vi dico che me ne infischio del vostro parere, e domani la signora Cristina andrà al cimitero con la bandiera che vuole lei perché io rispetto più lei morta che voi tutti vivi, e se qualcuno ha qualcosa da obiettare lo faccio volare giù dalla finestra! Il signor prete ha qualcosa da dire?» «Cedo alla violenza» rispose allargando le braccia don Camillo che era rientrato nella grazia di Dio. E così il giorno dopo la signora Cristina andò al cimitero nella bara portata a spalla da Peppone, dal Brusco, dal Bigio e dal Fulmine. E tutt’e quattro avevano al collo i loro fazzoletti rossi come il fuoco, ma sulla bara c’era la bandiera della signora maestra. Cose che succedono là, in quel paese strampalato dove il sole picchia martellate in testa alla gente e la gente ragiona più con la stanga che col cervello, ma dove, almeno, si rispettano i morti.




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