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Lunario dei giorni di scuola


Appendice trentesimo

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Ehi Prof!

Frank McCourt

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Il guaio del panino ebbe inizio quando un ragazzo di nome Petey gridò: Ehi, qualcuno vuole pane e mortadella? Ma che sei matto? Certo che mamma tua ti deve proprio odiare per farti un panino così. Allora Petey tirò il sacchetto con il panino addosso a Andy, che lo aveva criticato, e tutta la classe si mise a rumoreggiare. Botte, botte!, dicevano. Botte, botte! Il sacchetto finì per terra fra la lavagna e il primo banco, quello di Andy. A quel punto mi alzai dalla cattedra e emisi il primo suono della mia carriera d’insegnante: Ehi. Quattro anni di studi alla New York University e l’unica cosa che mi venne da dire fu Ehi. Lo ripetei un seconda volta: Ehi. Loro fecero come se niente fosse e continuarono a fomentare la rissa, apposta per ammazzare il tempo e per distogliermi dalla lezione che avevo certo preparato. Allora mi avvicinai a Petey e articolai il mio primo enunciato da insegnante: Piantatela di tirarvi panini! Petey e il resto della classe rimasero esterrefatti. Il professore, il professore nuovo, aveva appena interrotto una bella rissa. Di norma i professori nuovi o si fanno i fatti loro o mandano a chiamare il preside, e lo sanno tutti che passano secoli prima che arrivi qualcuno. Nel frattempo si può andare avanti con la rissa. Oltretutto, come la metti con un professore che ti dice piantatela di tirarvi panini quando il panino l’hai già tirato? Dall’ultimo banco Benny gridò: Ehi, prof! che glielo dici a fare? Guarda che il panino già l’ha tirato. Che nollo vedi che sta tutto lì per terra? La classe scoppiò a ridere. Cosa c’è di più stupido di un professore che ti dice di non fare una cosa quando l’hai già fatta? Un ragazzo si coprì la bocca con la mano e disse piano: Sceeemo, e mi resi conto che si riferiva a me. Mi venne voglia di buttarlo giù dalla sedia con un cazzotto, ma sarebbe stata la fine della mia carriera. Oltretutto, la mano che copriva la bocca era enorme, e il banco troppo piccolo per la sua stazza. Qualcuno disse: Ehi, Benny, che fai, l’avvocato? e tutti quanti scoppiarono a ridere di nuovo. Alé, alé, dissero, e aspettarono la mia contromossa. Adesso che farà il professore nuovo? Alla New York University i docenti di didattica non insegnavano come gestire la classe in caso di panini volanti. Discettavano di teoria e filosofia della didattica, di istanze etiche, della necessità di considerare il ragazzo nella sua interezza, cioè di Gestalt – scusa se è poco – e delle esigenze profonde del ragazzo, ma mai dei momenti critici in aula. Dovevo dire: Ehi, Petey, vieni qui e raccatta quel panino sennò finisce male? Oppure dovevo raccattarlo io e buttarlo nel cestino per dimostrare il mio disprezzo verso chi tira panini mentre milioni di persone nel mondo muoiono di fame? La classe doveva capire che comandavo io, che ero uno tosto, che a me non mi si pigliava per il culo. Il panino, avvolto nella carta oleata, era mezzo uscito dal sacchetto e dal profumo capii che dentro c’era ben altro, oltre alla mortadella. Lo raccolsi e lo scartai. Non era uno dei soliti sandwich con la ciccia infilata tra due fette insipide di pan carré bianco americano. Quello era un pane scuro e compatto, fatto in casa da una mamma italiana di Brooklyn, un pane abbastanza sodo da reggere tante fette di sontuosa mortadella alternata a pomodori, cipolle e peperoni, il tutto cosparso di olio d’oliva e di una salsina da folgorare le papille gustative. Così lo mangiai. Fu il mio primo atto di gestione della classe. La mia bocca piena attirò la loro attenzione. Trentaquattro ragazzi e ragazze, età media sedici anni, mi guardarono strabiliati. E nei loro sguardi vidi l’ammirazione: ero il primo insegnante della loro vita che raccattava un panino da terra e se lo mangiava sotto gli occhi di tutti. L’uomo sandwich. Ai tempi delle elementari, in Irlanda, noi bambini ammiravamo tanto un maestro che tutti i giorni si mangiava una mela e poi ricompensava gli alunni buoni con la buccia, tagliata in un’unica striscia. Questi ragazzi qui videro l’olio che dal mento mi sgocciolava sulla cravatta presa ai grandi magazzini per due dollari. Ehi, prof, quello è il panino mio, disse Petey. Ma sta’ zitto, ribatté la classe. Non vedi che il professore sta a mangiare? Io mi leccai le dita. Buono, dissi, poi appallottolai sacchetto e carta oleata e lanciai tutto nel cestino. La classe esultò. Forte! dissero. All’anima! Si spazzola il panino e centra pure il cestino. Gagliardo! Allora è così insegnare? Caspita, mi sentivo un campione. Mi ero mangiato il panino e avevo anche fatto canestro. Ora erano in mio potere. Perfetto. Solo che a quel punto non sapevo cosa fare. Non avevo idea di come passare dal panino all’ortografia, alla grammatica, alla sintassi o a qualunque altra cosa legata alla materia che avrei dovuto insegnare, ovverosia l’inglese. I miei alunni continuarono a sorridere finché non videro la faccia del preside incorniciata nel vetro della porta. Le sopracciglia nere e cespugliose si inarcarono fino a metà fronte con aria interrogativa. Il preside aprì la porta e mi fece cenno di uscire. Professor McCourt, le dispiace? Petey mi disse sottovoce: Ehi, capo, non ti preoccupare, tanto il panino non mi andava. La classe mi disse: Dài, dài, facendomi capire che se avessi avuto dei problemi col preside loro stavano dalla mia parte. La mia prima esperienza di solidarietà alunni-professore. Certo, magari i ragazzi in classe battevano la fiacca o si lamentavano, ma quando si presentava in aula un preside o qualsiasi altro estraneo scattava la complicità, facevano subito fronte col prof. In corridoio il preside mi disse: Professor McCourt, lei capirà sicuramente che non sta bene se un insegnante consuma il pranzo alle nove di mattina in aula, davanti a tutta la classe. Ma come, è la sua prima esperienza d’insegnante e lei decide di iniziarla mangiando un panino? Giovanotto, le sembra una prassi accettabile? Qui non si fa così, quest’atteggiamento dà un’idea sbagliata ai ragazzi. Mi segue? Pensi ai problemi che avremmo se nel bel mezzo di una lezione gli insegnanti si interrompessero per mettersi a mangiare, specie di mattina quando è ancora ora di colazione. Abbiamo già abbastanza guai con i ragazzi che sbocconcellano di nascosto la merenda attirando scarafaggi e roditori vari. Già ci è capitato di dover cacciare via dalle aule degli scoiattoli, per non parlare dei topi. Se non teniamo gli occhi aperti, giovanotto, questi ragazzi e anche qualche suo collega trasformeranno la scuola in una grande mensa. Avrei voluto dire la verità e raccontargli di come me l’ero cavata bene, ma rischiavo di concludere lì la mia carriera d’insegnante. Avrei voluto dirgli: Preside, quello non era il mio pranzo, era il panino che un ragazzo ha tirato a un compagno e io l’ho raccolto perché sono nuovo e questa cosa è successa nella mia classe e all’università non si affronta l’argomento Panino, lancio e recupero del. Certo, l’ho mangiato, ma è stato per disperazione, o tutt’al più per impartire ai ragazzi una lezione sullo spreco e dimostrargli chi comanda, oppure, Gesù, è vero, l’ho mangiato perché avevo fame, ma giuro che non lo farò più perché non vorrei proprio perdere il mio bel posto di lavoro, anche se deve riconoscere che la classe stava buona. Se è così che si ottiene l’attenzione degli alunni di un istituto professionale sarebbe bene ordinare una pila di panini con la mortadella per tutte e quattro le classi che devo ancora incontrare. Però non aprii bocca. Il preside mi disse che era venuto in mio soccorso perché, ah ah, sembrava proprio che ne avessi molto bisogno. Ammetto che è riuscito a conquistarsi l’attenzione della classe, aggiunse, ma d’ora in poi veda di farlo in una maniera meno spettacolare. Provi a fare lezione. Lei è qui per questo, giovanotto. Per insegnare. E adesso le tocca recuperare il terreno perduto. Questo è quanto. Niente merende in classe né per l’insegnante né per lo studente. Io dissi: Sissignore, e lui mi fece segno di rientrare in aula. La classe mi chiese: Che ha detto? Ha detto che non devo pranzare in aula alle nove di mattina. Ma tu mica pranzavi. Lo so, ma lui mi ha visto col panino in mano e mi ha detto di non farlo più. Mannaggia, mica è giusto però. Voglio dire a mamma che il suo panino t’è piaciuto, fece Petey. E gli dico pure che per colpa del panino hai passato un guaio. Va bene, Petey, ma non dirle che l’avevi buttato via. Naa, naa, sennò m’ammazza. Mia madre è siciliana. Giù in Sicilia si scaldano parecchio. Dille che era il panino più squisito che ho mangiato in vita mia. Okay.

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