Il gran Michu
Émile Édouard Charles Antoine Zola
I.
Un pomeriggio, alla ricreazione delle quattro ore,
il gran Michu, mi prese a parte in un angolo del cortile. Egli aveva un aspetto
grave, che mi colpì d'un certo timore, poichè il gran Michu era un gagliardo
dai pugni enormi, che per nulla al mondo avrei voluto avere per nemico.
– Ascolta, – mi diss'egli colla sua voce grossa da
contadino appena dirozzato; – ascolta, tu vuoi entrarci?
– Sì, – risposi con forza, lusingato di entrare in
qualche cosa col gran Michu. Allora mi spiegò che si trattava d'una congiura.
Le confidenze ch'egli mi fece, mi cagionarono una sensazione deliziosa che non
ho forse mai più provata. Entravo finalmente nelle folli avventure della vita;
avrei avuto un secreto da custodire, una battaglia da combattere. E lo spavento
occulto che sentivo all'idea di compromettermi così, contava certo per una buona
metà nelle gioie pungenti della mia nuova parte
di complice. Perciò, mentre il gran Michu mi
parlava, lo guardavo con ammirazione. Egli m'iniziò, in modo un po' ruvido,
come un coscritto nell'energia del quale si ha
una mediocre confidenza. Tuttavia il fremito di
contentezza, l'aria d'estasi entusiasta che io doveva avere ascoltandolo,
finirono coll'infondergli una migliore opinione di me.
Quando la campana diede il secondo tocco, mentre an davamo
tutti e due a prendere i nostri posti per ritornare allo studio:
– Siamo intesi, non è vero? – mi diss'egli a voce
bassa. – Tu sei dei nostri.... Non avrai mica paura?... non ci tradirai?...
– Oh! no, vedrai.... L'ho giurato.
Egli mi piantò in faccia i suoi occhi grigi con una
vera dignità d'uomo maturo, e mi disse ancora: – Altrimenti, sai, io non ti
batterò, ma dirò per tutto che sei un traditore, e nessuno ti parlerà più.
Ricordo ancora l'effetto singolare che produsse in
me questa minaccia: essa mi diede un coraggio enorme. «Basta! dicevo a me
stesso, possono farmi quello che vogliono; ma io non tradirò Michu!» Attesi con
febbrile impazienza l'ora del pranzo. La rivolta doveva scoppiare al refettorio.
II.
Il gran Michu era del Varo. Suo padre, un contadino
che possedeva qualche lembo di terra, aveva sparato il suo fucile nel 1851 al
momento dell'insurrezione provocata dal colpo di Stato. Lasciato come morto
nella pianura di Uchâme, gli era riuscito a nascondersi. Quando ricomparve non
fu molestato. Soltanto le autorità del paese, i notabili, i grandi e i piccoli
proprietari non lo chiamavano altrimenti che «quel brigante di Michu».
Questo brigante, questo galantuomo illetterato,
mandò suo figlio al collegio di A.... Voleva farne senza dubbio un sapiente,
per il trionfo della causa che non aveva potuto difendere, se non colle armi
alla mano. Al collegio sapevamo vagamente questa storia; e ciò ci faceva
considerare il nostro camerata come un personaggio formidabile. Il gran Michu
era d'altronde, per età, assai maggiore di noi. Egli aveva quasi diciott'anni,
quantunque non facesse che la quarta classe. Ma non si osava celiarlo. Aveva una
di quelle menti che apprendono con difficoltà, e non indovinano niente: se non
che quando sapeva una cosa, la sapeva a fondo, e per sempre. Forte, tagliato
come a colpi di mannaia, egli regnava sovrano durante le ricreazioni. E dopo
tutto ciò, egli era d'una dolcezza estrema. Non lo vidi in collera che una
volta; egli voleva strangolare un maestrucolo, perchè c'insegnava che tutti i
repubblicani erano ladri ed assassini. Michu fu sul punto d'esser cacciato via.
Solo più tardi, vedendo il mio antico camerata ne'
miei ricordi, ho potuto comprendere la sua indole dolce e forte.
Suo padre aveva dovuto di buon'ora farne un uomo.
III.
Il gran Michu amava il collegio, e ciò ci stupiva
non poco. Non provava che un supplizio di cui non osava parlare: la fame. Il
gran Michu aveva sempre fame. Non mi ricordo d'aver mai veduto un appetito
eguale. Egli ch'era tanto altero, giungeva persino a rappresentare delle
commedie umilianti per iscroccarci un pezzo di pane, una merenduccia, una
colazione. Allevato all'aria libera, ai piedi della catena dei Maures, soffriva
ancora più crudelmente di noi della magra cucina del collegio.
Questo era uno dei nostri più grandi argomenti di
conversazione, nel cortile, lungo il muro che ci riparava sotto al suo filo
d'ombra. Noi altri eravamo delicati. Mi ricordo sopratutto di un certo baccalà con salsa rossa e di certi
fagiuoli con salsa bianca ch'erano divenuti l'oggetto di una maledizione
generale. I giorni in cui comparivano queste pietanze non finivamo più di parlarne. Il gran
Michu, per rispetto umano, gridava con noi, benché avesse divorato volentieri
le sei porzioni della sua tavola.
Il gran Michu non si lagnava quasi che della
scarsità dei viveri. Il caso, come per esasperarlo, l'aveva collocato all'estremità
della tavola, accanto al maestrucolo, un giovane ganimede, che ci lasciava
fumare al passeggio. La regola era che i maestri di studio avevano diritto a due
porzioni. Per esempio, quando c'era salsiccia, bisognava vedere il gran Michu
guardare avidamente i due pezzi che s'allungavano uno accanto all'altro sul
tondo del maestrino. – Io sono due volte più grosso di lui, – mi diss'egli un giorno,
– ed egli deve mangiare due volte più di me. E dire che non ne lascia un
briciolo; non ne ha mai di troppo!
IV.
Ora i capi avevano deciso che si dovesse finalmente
rivoltarsi contro il baccalà colla salsa rossa e contro i fagiuoli colla salsa
bianca. I cospiratori offrirono naturalmente al gran Michu d'essere il loro
capo. Il piano di que' signori era d'una semplicità eroica: bastava, dicevano,
condannare l'appetito, rifiutare ogni nutrimento finché il provveditore
dichiarasse solennemente che sarebbe migliorato l'ordinario. L'approvazione
data dal gran Michu a questo piano, è uno dei più bei tratti d'abnegazione e di
coraggio che io conosca. Egli accettò d'essere il capo del movimento col tranquillo
eroismo di quegli antichi romani che si sacrificavano per la cosa pubblica. Figurarsi!
gl'importava proprio di veder scomparire il baccalà e i fagiuoli! egli non
desiderava che una cosa: averne di più, averne a discrezione! E oltre a ciò,
gli si domandava di digiunare! Egli mi confessò in seguito che la solidarietà,
il sacrifizio dell'individuo agl'interessi della comunità, – virtù repubblicana
insegnatagli da suo padre, – non era mai stata messa in lui a una prova più dura.
La sera, al refettorio, era il giorno del baccalà colla salsa rossa, – la
dimostrazione cominciò con un accordo veramente bello. Solo il pane si poteva
mangiare. Arrivano i piatti, nessuno li tocca; si mangia solo il pane. E ciò
con gravità, senza quei discorsi a voce bassa che eravamo avvezzi di fare. I
soli piccoli ridevano. Il gran Michu fu superbo. Egli giunse quella prima sera a
non mangiare neppure il pane. Coi due gomiti sulla tavola egli guardava
sdegnosamente il maestrucolo che divorava.
Il provveditore, chiamato dal sorvegliante, entrò
nel refettorio come una tempesta. Egli ci apostrofò duramente, domandandoci che
cosa potevamo rimproverare a quel pranzo, ch'egli assaggiò e trovò squisito. Allora
il gran Michu si alzò.
– Signore, – diss'egli, – il baccalà è putrido e non
arriviamo a digerirlo.
– Ah! sì, – esclamò il maestrucolo, senza lasciar al
provveditore il tempo di rispondere, – eppure le altre
sere avete mangiato voi
solo quasi tutte le porzioni.
Il gran Michu divenne di fuoco. – Quella sera, fummo
semplicemente mandati a letto, dicendoci che l'indomani avremmo senza dubbio
riflettuto.
V
L'indomani e il giorno appresso, il gran Michu fu
terribile. Le parole del maestrucolo lo avevano ferito al cuore. Egli ci
sostenne, ci disse che saremmo tanti vili se cedessimo; metteva ormai tutto il
suo orgoglio a mostrare che, quando voleva, era capace di non mangiare. E fu un
vero martirio. Noi nascondevamo tutti nei nostri
banchi della cioccolata, dei vasi di conserve,
perfino della salsiccia che ci aiutavano a non mangiare asciutto il pane di cui
empivamo le nostre saccoccie. Ma egli che non aveva parenti in città e che
rifiutava, d'altronde, i dolciumi, fu proprio ridotto alle poche croste che
potè trovare. Il secondo giorno, il provveditore dichiarò che, ostinandosi gli
allievi a non toccare le pietanze, egli avrebbe cessato di far distribuire il
pane. Allora, a colazione, scoppiò la rivolta. Era il giorno dei fagiuoli colla
salsa bianca.
Il gran Michu, al quale una fame atroce doveva
turbare la testa, si alzò d'un balzo. Egli prese bravamente il tondo del
maestro, che mangiava avidamente per braveggiare e farci voglia e lo gettò in
mezzo alla sala intuonando la Marsigliese con forte voce. Fu questo come un gran
soffio che ci sollevò tutti. I tondi, i bicchieri, le bottiglie danzarono un
grazioso balletto. I maestri, saltando sui cocci, si affrettarono ad
abbandonare il refettorio. Lo zerbino, nella fuga, ricevette un piatto di
fagiuoli sulle spalle, la salsa dei quali lo vestì di un largo collare bianco.
Ma si trattava di fortificare la piazza. Il gran
Michu fu nominato generale. Egli fece portare e ammucchiare le tavole davanti
le porte. Mi ricordo che avevamo tutti preso in mano i coltelli. Mentre la
Marsigliese risuonava sempre, la sommossa si mutava in rivoluzione. Per
fortuna, fummo lasciati a noi stessi, durante tre lunghe ore.
Pareva che fossero andati a chiamare le guardie.
Queste tre ore di strepito bastarono a calmarci. In fondo al refettorio c'erano
due larghe finestre, che davano sulla corte. I più timidi, spaventati dalla
lunga impunità in cui ci lasciavano, aprirono pian piano una delle finestre e
sparirono. Gli altri allievi li seguirono a poco a poco. Ben presto il gran
Michu non ebbe intorno a sé che una dozzina d'insorti. Allora disse loro con
voce aspra:
– Andate a cercare gli altri: basta che vi sia un
solo colpevole.
Poi rivolgendosi a me, che esitavo, soggiunse:
– Ti rendo la tua parola, capisci!
Quando la guardia ebbe sfondata una delle porte,
trovò il gran Michu solo, seduto tranquillamente all'estremità d'una tavola, in
mezzo alle stoviglie rotte. La sera stessa, egli fu mandato a suo padre. In
quanto a noi profittammo poco di questa rivolta. Si evitò, è vero, durante
qualche settimana di darci il baccalà ed i fagiuoli. Ma ricomparvero poi: solo
il baccalà aveva la salsa bianca e i fagiuoli la salsa rossa.
VI.
Molto tempo dopo rividi il gran Michu. Egli non
aveva potuto continuare gli studi: coltivava alla sua volta i pochi pezzi di
terra che, morendo, gli aveva lasciato suo padre. – Sarei stato, – mi diss'egli, – un cattivo
avvocato o un cattivo medico, perché avevo la testa assai dura. È meglio che io
sia un contadino. Ciò mi sta bene.... Non importa… Voi altri mi avete
gentilmente abbandonato. Ed io che proprio adoravo il baccalà ed i fagiuoli!
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