Come
Checco detto finocchio si salvò
Marco
Tomatis e Loredana Frescura
Immediatamente, con la coda dell’occhio, avevo colto
qualcosa di incongruo. Qualcosa che poche ore prima, quando ero entrato a
scuola, non c’era. Avevo guardato e mi ero trovato davanti una C. Grande,
tracciata in vernice spray verde sul muro della scuola. Una C seguita da altre
quattordici lettere a formare una scritta: CHECCO FINOCCHIO. Più in là,
un’altra: CHECCO CULO. E un’altra ancora: CHECCO FROCIO. Le avevo seguite, a
piedi. Si susseguivano sui muri e sui marciapiedi per circa un chilometro.
Quindici complessivamente. Alternando la vernice verde a quella bianca. Ed
erano tutte variazioni sullo stesso tema. Compreso un: CHECCO LESBICA che
dimostrava le idee non tanto chiare degli ignoti writer sulla faccenda di cui
scrivevano. In ogni modo, per non lasciare dubbi sull’effettiva identità di
Checco, ammesso che ci potessero essere dubbi per chi lo conosceva, in un paio
di scritte erano specificati per bene nome e cognome: FRANCESCO MUSSI SECCHIONE
FRANCESCO MUSSI GAY.
Faceva eccezione l’ultima scritta, tracciata su un
marciapiede un po’ defilato: W LA FIGA DI CARLA. Come se i responsabili
volessero stabilire senza ombra di dubbio la loro appartenenza totale e
indiscutibile al mondo eterosessuale. E adesso? Non avevo dubbi che le scritte
fossero una specie di rappresaglia per il motorino demolito. Una cosa finita
anche sui giornali, bollata come gravissimo episodio di bullismo. Un motorino
nuovo fiammante, appena comperato e parcheggiato sotto casa, era sparito.
Appena il tempo di denunciare il furto ed era stato ritrovato in una viuzza di
campagna. Riconoscibile solo per la targa, il resto metodicamente distrutto a
martellate con impegno e applicazione. Un lavoro scientifico che aveva
trasformato un piccolo gioiellino della tecnica moderna in un ammasso di ferraglia
e frammenti di plastica. E che il proprietario fosse uno di quelli che aveva
ucciso a sassate il cane che l’alunno Francesco Mussi aveva tentato di salvare,
la diceva lunga su chi potessero essere i responsabili. O il responsabile, al
singolare. Anche se, ovviamente, prove non ne erano state trovate. E a questo
punto avevo pochi dubbi anche su chi potessero essere gli autori delle scritte.
Mentre l’umidità della nebbia mi entrava nelle ossa, mi ero reso conto che
ormai mi trovavo davanti a una specie di faida. E la domanda essenziale era
semplice: Cosa avrei dovuto fare? Non c’erano dubbi, le scritte avrebbero
esposto l’alunno Mussi Francesco, già chiamato Checco Finocchio, a eterne prese
in giro. Figuriamoci. Una quindicina di scritte multicolori a caratteri
cubitali destinate, prima di sparire, a rimanere visibili per anni. Senza
contare che probabilmente sarebbe scattata qualche altra rappresaglia. E avevo
imparato a conoscere e a temere l’inventiva di Piumetti Enrico e dei suoi
amici. Anche perché non mi facevo illusioni. I presunti responsabili, appena
chiamati in causa, avrebbero assunto la faccia più innocente del mondo e negato
tutto. Nessuna possibilità di intervenire in qualche modo e di punirli. E,
peggio ancora, sicuri dell’immunità, nessuna possibilità di parlare con loro,
stabilire un qualsiasi rapporto che li portasse a pensare alle conseguenze
delle loro azioni.
A meno che non saltassero fuori filmati di qualche webcam. E
comunque, a che sarebbero servite poche immagini sgranate e sfocate? C’era da
scommettere che sarebbe schizzata immediatamente fuori la solita mamma pronta a
giurare che il figlio, mentre ignoti delinquenti stavano riempiendo la città di
scritte, stava scalando il K2, facendo volontariato in Darfur o partecipando
alle olimpiadi di scacchi a Kathmandu. No, mi stavo rendendo conto che, giusto
o sbagliato che fosse, c’era una cosa sola da fare. E non unicamente per
Checco, anche se solo iddio sapeva quanto mi disturbassero gli insulti di cui
era oggetto. Anche per gli sconsiderati autori delle scritte. Chiunque fossero.
Non si poteva abbandonarli a loro stessi. Se la loro impresa fosse andata a
buon fine, non c’erano dubbi che si sarebbero vantati con i loro amici,
sarebbero diventati degli eroi e altri li avrebbero imitati. In un’escalation
di vera e propria violenza che si sapeva quando era iniziata, ma non quando e
se sarebbe terminata. Di cui avrebbero finito per essere vittime tutti. Anche
loro. Con il rischio che, prima o poi, qualcuno il martello, invece che su
insensibili e inanimati pezzi di plastica e metallo, cominciasse a usarlo su
qualche cranio che, per quanto duro, sarebbe stato comunque sempre più morbido
del lamierino.
No, meglio intervenire subito e far sparire le scritte. Renderle
innocue. Mai esistite. Sbagliato? Forse, ma la logica di un educatore non è
quella di un carabiniere o di un giudice. E per fortuna era novembre, faceva
freddo, era buio, c’era la nebbia e quindi in giro, a una certa ora, ci
sarebbero state ben poche persone. In un colorificio che stava chiudendo avevo
acquistato una mezza dozzina di bombolette spray di vernice rossa. Tornato a
casa avevo cenato con i miei figli. Poi, ringraziando il cielo per l’assenza di
mia moglie – di turno nell’ospedale in cui era medico, evitandomi quindi spiegazioni
assortite – avevo sistemato la figlia più piccola a letto e mi ero cambiato.
Jeans anonimi, giacca a vento con tanto di cappuccio da tirare sulla testa,
berretto con visiera calato sugli occhi in modo da essere irriconoscibile a
tutti gli occhi umani o elettronici che avessi potuto incontrare. Avevo già
annunciato che mi sarei assentato per una riunione, quando proprio sulla porta
mi era comparso davanti mio figlio, Tommaso, diciassette anni. Faccia stupita
dopo un rapido sguardo al mio abbigliamento. «Vai a una riunione conciato
così?» «Sì.» «Perché?» Non avevo avuto il tempo di rispondere. Una bomboletta
mi era scivolata dalle tasche ed era caduta rumorosamente per terra. Tommaso
l’aveva raccolta. Sguardo incredulo. Poi, ancora più incredulo si era rivolto a
me. «Ma sei fuori?» E a quel punto avevo spiegato tutto. Non aveva fatto
obiezioni, anzi la risposta era stata rapida. «Vengo anch’io. Facciamo prima.»
«Non se ne parla.» Sorriso di chi la sa lunga e nello stesso tempo pieno di
commiserazione per l’anziano genitore che non ha la più pallida idea di come
vada il mondo. «Papà. Se vai da solo ci metti una vita e ti fai beccare. Invece
tu mi fai da palo e io lavoro.»
Non avevo voluto indagare da dove venisse
quella sua sicurezza. Ci sono cose dei figli che è meglio ignorare. E comunque
gli ero grato dell’offerta. Aveva ragione. In due avremmo fatto prima e meglio.
Restava un problema, e in effetti si presentò tre secondi dopo. «Vengo
anch’io.» Voce infantile, quella di Arianna, secondogenita e ultima dei miei
figli. Cinque anni. Era comparsa dalla sua camera nell’ingresso con già addosso
il giubbotto direttamente sul pigiama. Tommaso era stato lapidario. «Non ci
pensare nemmeno. Torna a dormire. Eri già a letto e ti sei alzata solo per
sentire quello che stavamo dicendo. Sei una rompiballe.» Lei non aveva fatto
una piega. «E io dico a mamma che siete usciti, mi avete lasciata sola e che io
ho paura a stare in casa senza nessuno.» Aveva capito perfettamente qual era il
punto debole. Una povera bimba costretta a casa da un genitore e un fratello
maggiore sconsiderati, in balia di chissà quali babau.
A quel punto mi ero
arreso. Meglio con me che in casa da sola, specialmente sapendo che mia moglie
sarebbe rientrata solamente il mattino dopo. Così eravamo usciti con l’aria dei
cospiratori, la parte maschile della comitiva quantomeno. Arianna saltellava
felice con una bomboletta in mano. Era stato facile. All’inizio. Nessuno in
giro. Io mi ero limitato veramente a far solo da palo. Con una fifa blu, da mal
di stomaco addirittura, di essere beccato. La maggior parte del lavoro l’aveva
fatto Tommaso, mentre sua sorella era intervenuta coscienziosamente sulle
scritte sui marciapiedi o comunque alla sua portata. Energici spruzzi di
vernice rossa, ed erano scomparsi nome ed epiteti. Poi ci eravamo trovati di
fronte a una scritta cancellata. Con uno spray verde. Tommaso mi aveva
sussurrato: «Questo non è un lavoro nostro.» In effetti girato l’angolo ci era
comparso davanti un gruppo di persone. Stavano guardando le lettere che, sul
marciapiede male illuminato, componevano l’unica frase non dedicata a Checco. W
LA FIGA DI CARLA Cinque persone. Felpe con i cappucci sulla testa. Bombolette
spray in mano. Non ci avevo messo molto a riconoscerli. Francesco Mussi e i
suoi quattro amici. Imbarazzo da parte mia. Imbarazzo e stupore da parte loro.
Poi un baluginio azzurrastro e un grido da parte di qualcuno di loro. «I
caramba!» Cinque persone che schizzano via come fulmini. Tre che restano lì. Il
sottoscritto piantato come un salame, incapace di prendere una decisione.
Tommaso, evidentemente mosso a pietà da un padre totalmente imbranato. E
Arianna probabilmente per non essersi accorta di nulla, impegnata com’era a
disegnare ghirigori sulla scritta inneggiante alle parti intime di Carla. In
realtà nemmeno i cinque erano riusciti ad allontanarsi troppo. Uno di loro,
Graziano, aveva fatto pochi passi impacciati, poi era inciampato ed era caduto.
Gli altri si erano fermati e poi erano tornati indietro per aiutarlo. E i fari
dell’auto dei carabinieri ci avevano inchiodati tutti e otto. «Fermi!» Uno dei
carabinieri era sceso dall’auto. «Cosa state facendo?» Domanda scema. Si vedeva
benissimo cosa stavamo facendo. Mi ero fatto avanti, spostando il cappuccio
della giacca a vento per fargli vedere che aveva a che fare con una persona
adulta. E avevo finito con il dare una risposta ancora più scema. «Non è come
sembra. Posso spiegare.» Mi ero reso immediatamente conto di aver detto
un’idiozia sentendo mio figlio soffocare una risata. Il carabiniere mi aveva
guardato con aria stranita. Evidentemente mi aveva riconosciuto. O comunque
aveva una qualche vaga idea di chi fossi. «Posso avere i suoi documenti?»
Gentile. Però evidentemente voleva avere la prova provata di aver beccato il
dirigente scolastico più imbecille dell’universo. Avevo immaginato in un attimo
anche i titoli sui giornali o su una delle mille diavolerie in rete. IL PRESIDE
WRITER ANCHE I DIRIGENTI SCOLASTICI IMBRATTANO I MURI IL PRESIDE DALLO SPRAY
ROSSO Ai commenti della gente era meglio non pensare. E nemmeno alle richieste
eventuali di spiegazione da parte dei miei superiori. E avrei dovuto darne
parecchie di spiegazioni! Poi il carabiniere aveva accennato ad Arianna che
continuava imperterrita il suo lavoro. «E la bambina?» Avevo sospirato, deciso
ad assumermi fino in fondo le mie responsabilità quando Arianna, che si era
evidentemente sentita chiamata in causa, aveva alzato la testa dal suo lavoro e
ci aveva gratificati tutti di un sorriso soddisfatto. «Finito» aveva poi annunciato.
Nove teste si erano girate contemporaneamente verso di lei. Per accorgersi che
aveva fatto una specie di capolavoro. Le quattro lettere di FIGA erano
scomparse. La F era stata trasformata in una finestra dotata di davanzale con
sopra regolamentare vaso da fiori. La I in un albero improbabile ma comunque
molto fiorito. La G nel faccione tondo di una margherita. La A in un pupazzo
stile clown. E in tutto il suo capolavoro il rosso della vernice che aveva
usato si intrecciava con il bianco e il verde della scritta. Una vera opera
d’arte. Molto patriottica. Anche se ero sicuro che non avrebbe intenerito
troppo i carabinieri, per quanto nei secoli fedeli. Poi Arianna, conscia di
essere diventata il centro dell’attenzione, aveva parlato con una certa solennità.
«Io so cosa vuol dire figa.» Avevo chiuso gli occhi, inorridito. «Me l’ha
spiegato a scuola Giacomo, un mio amico.» A scuola? La prima cosa che avrei
fatto il mattino dopo, se fossi riuscito a evitare la galera, sarebbe stata
proprio telefonare al collega della scuola materna di mia figlia. Lei aveva
continuato. Implacabile, imperterrita e ormai totalmente sicura di avere
davanti un pubblico attentissimo. «Io la chiamavo patatina, però la mamma ha
detto che il suo vero nome è vagina.» Avevo sempre pensato che fosse utile
avere una mamma medico. «Mi ha detto anche che serve per la ricreazione.»
«Per... la... ricreazione...» avevo balbettato con la voce strozzata e
allibito, incredulo che mia moglie avesse mai affermato una cosa del genere, e
terrorizzato dalla spiegazione che temevo sarebbe seguita da parte di Arianna.
Lei mi aveva guardato, imbarazzata. Poi aveva tentato un chiarimento esitante.
«Sì... la ricreazione... i bambini... quelle cose lì.» Singhiozzo dovuto a una
risata strozzata di Tommaso. Io continuavo a non capire. Faccia stranita dei
carabinieri. Silenzio da parte dei cinque ragazzi, di cui non riuscivo a vedere
il viso perché coperto dal cappuccio della felpa. Poi si era sentita una voce.
Femminile. Appartenente proprio a una di loro, Carla. Lei aveva capito. «Forse
volevi dire...» breve esitazione prima di continuare «...riproduzione...»
Sorrisone grato di Arianna. «Ecco! Riproduzione... Proprio quella... Ho
sbagliato parola.» Avevo appena avuto il tempo di intravedere mio figlio ormai
piegato in due dal ridere che senza nemmeno pensarci troppo, quasi d’istinto,
avevo preso in mano la situazione e cominciato a spiegare tutto ai carabinieri.
Perché ero lì armato di bombolette, perché c’erano i miei figli. Perché c’erano
i ragazzi. Tutto, insomma. Poi avevo concluso: «Quindi lasciate andare a casa i
miei alunni. E anche i miei figli. Io vengo con voi e vediamo di chiarire
tutto. Se ci sono danni, li pago.» Non ho mai amato le divise, di qualsiasi
genere fossero. Non mi piace chi le indossa. Quella sera ebbi la dimostrazione
che anche sotto un’uniforme può battere un cuore. Poche parole del carabiniere
più anziano. «Okay. Non abbiamo visto niente. Però sparite in fretta.» Un
attimo dopo l’auto svoltava l’angolo. Definitivamente. Due attimi dopo anche i
cinque ragazzi erano svaniti nel nulla. Senza un saluto. Solo un annuncio di
Carla: «Questa è l’ultima. Le altre le abbiamo cancellate noi.» Poi, nel
silenzio, si era sentita la voce di Arianna, offesa: «Papà! Mio fratello
continua a ridere e a prendermi in giro.» In realtà stava cancellando
accuratamente la parola Arianna posta a firma del suo capolavoro. Avevo
aspettato che finisse, poi avevo preso Arianna per mano. «Andiamo.» Avevo
sentito la sua mano stringere la mia, mi aveva sorriso con uno sguardo
complice, il cappuccio della felpa che ancora gli copriva quasi tutto il viso.
«Se vuoi non raccontiamo nulla a mamma.» Avevo sorriso anch’io. «Non importa»
avevo risposto. «Ora andiamo a dormire.» Lei allora aveva preso con la mano
libera quella di suo fratello e aveva cominciato a camminare in mezzo a noi.
Con un’ultima protesta. «Voi due fate i passi troppo lunghi.»
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