Una strana primavera
di Angelo Petrosino
Una mattina Giorgio si mise a guardare Florence in
silenzio. Florence era la sua maestra. In quel momento stava facendo l'appello
e segnava i nomi degli assenti sul registro. Giorgio notò che gli occhi di
Florence erano più profondi e più luminosi del solito. Il sole entrava dalle
veneziane socchiuse e nuotava con allegria nelle sue pupille. Ma accarezzava anche
i suoi capelli ricciuti e metteva in evidenza la grana minuta della sua pelle.
Florence era ancora giovane e la sua fronte era priva di rughe. Le sue guance
erano lisce e morbide e Giorgio ricordava di averle viste arrossate solo nei
giorni in cui il freddo era pungente. Altrimenti erano di un rosa tenero e
puro. Florence, d'altra parte, non si truccava mai. Non metteva nemmeno il
rossetto sulle labbra. Le labbra di Florence erano piene e increspate e
somigliavano a due mezze fragoline selvatiche.
«Giorgio?», disse in tono interrogativo Florence.
Giorgio aprì la bocca e volle dire: «Presente». Ma ne venne fuori un suono
smorzato che non sentì nessuno.
«Giorgio?», ripeté Florence, che alzò la testa dal registro e lo fissò stupita.
«Perché non rispondi?»
«Presente», bisbigliò Giorgio, con uno sforzo enorme.
Florence gli sorrise, scosse la testa e andò avanti con l'appello.
Giorgio continuò a guardarla di sottecchi e si chiese perché Florence quella
mattina era diversa. Nel corso delle prime due ore si alzò spesso dal posto e
andò a chiederle infinite spiegazioni.
«Sono davvero stupita, Giorgio», gli disse ad un certo punto Florence. «Questi
problemi sono facilissimi e tu non hai mai avuto difficoltà a risolverli. Che
ti succede?»
Giorgio alzava le spalle, la fissava ostinato negli occhi e aspirava il profumo
di rose che sembrava emanare dal suo corpo.
«È giusta questa trasformazione con la virgola?», chiedeva.
«Mi fai una domanda del genere alla fine della quarta?», gli chiedeva a sua
volta Florence, prima di rispondere.
Giorgio avrebbe voluto che in quel momento le dita di Florence si insinuassero
tra i suoi capelli, come facevano quando lei glieli arruffava per gioco. Ma
quella mattina Florence non lo fece. Nel suo sguardo c'erano stupore e
sconcerto.
Durante l'intervallo nel cortile della scuola, Florence gli chiese: «Perché non
vai a giocare a pallone con gli altri? Siamo in aprile e c'è un bel sole.
Approfittatene per togliervi dal viso il pallore che vi ha lasciato l'inverno».
«Vorrei stare un po' con te. Posso?», chiese Giorgio.
«Certo che puoi. Anzi, potresti dirmi se c'è qualcosa che non va. Stamattina in
classe eri molto strano».
Giorgio le si strinse al fianco e chiuse gli occhi.
«Cos'hai? Sei in cerca di coccole oggi? Non vuoi proprio dirmi cosa ti succede?»
«Non mi succede niente», mormorò Giorgio.
«E invece qualcosa ti succede. Ma non sei obbligato a dirmi niente, se non
vuoi».
Il golfino di lana che Florence indossava era come un cuscino morbido sul quale
Giorgio abbandonò la testa.
«Tu ci vieni volentieri a scuola?», le chiese Giorgio all'improvviso.
«Che domanda! Il mio mestiere mi piace. Non si vede, forse?»
Giorgio si staccò da lei, la guardò negli occhi e disse: «Per me le ore che
passo a scuola sono le più belle della giornata. Io verrei a scuola anche con
la polmonite».
«Rischieresti di morire», disse ridendo Florence. «Non te lo consiglio, per il
tuo bene».
A Giorgio non piacque la sua ironia, e s'incupì.
Quando Florence lo vide rabbuiarsi in viso lo attirò a se e gli disse: «Oggi
non accetti nemmeno due parole scherzose. L'ho detto io che c'è qualcosa che
non va».
Giorgio non disse niente e abbandonò la testa sul seno di Florence. Le grida
dei compagni gli arrivavano fioche e il suo orecchio destro pulsava ai battiti
tranquilli del cuore di lei. Da quel giorno, Giorgio cercò tutte le occasioni
per stare con Florence. Aspettava con ansia soprattutto i minuti degli
intervalli, quando trascurava i compagni e andava a passeggiare con lei sotto
il porticato della scuola. In quei momenti avrebbe voluto allontanarsi dalla
vista degli altri bambini e delle loro insegnanti.
Perciò, le prime volte, la prese per mano e la spinse lungo le ali della scuola
meno frequentate. Florence, però, si era rifiutata di seguirlo.
«Devo tenere sott'occhio i tuoi compagni», gli aveva detto.
Giorgio si era rassegnato a malincuore e non aveva più avuto il coraggio di
insistere. Avrebbe voluto parlare a lungo con Florence, ma non poteva farlo
davanti a tutti, in mezzo al chiasso che riempiva il cortile. Inoltre,
passeggiando sotto il porticato frequentato dalle altre insegnanti, Giorgio
aveva già dovuto sorbirsi le loro frecciatine ironiche e i loro stupidi
commenti.
«Cos'ha questo bambino da stare attaccato come una ventosa alle gonne della
maestra?». «Dov'essere proprio senza fondo la miniera di segreti che le
racconti!». «Se te ne stessi con gli altri della tua età, non sarebbe più
normale?». «Su, ragazzina corri a divertirti».
A queste odiose espressioni, Giorgio aveva un giorno risposto per le rime.
«Fatevi i fatti vostri e lasciatemi in pace», aveva detto.
«Perdiana!», aveva esclamato una vecchia maestra, rivolgendosi a Florence con
una faccia grinzosa e una voce scandalizzata. «Spero che quando tornerai in
classe punirai a dovere questo screanzato. Se lo avessi con me, proporrei al
direttore di lasciarlo a casa almeno un paio di giorni, per fargli calmare i
bollenti spiriti che sembrano agitarlo».
In quell'occasione, Florence aveva cercato di giustificarlo «Giorgio è un
bambino molto sensibile. Forse è un po' cresciuto per la sua età. Per questo è
assai curioso, fa un sacco di domande e vuole discutere con i grandi».
«Già, però di grandi sembri esserci soltanto tu», aveva detto un'altra maestra.
«Mi sembra naturale», aveva detto Florence. «Io sono la sua insegnante. Con chi
volete che abbia più confidenza?».
«Secondo me gliene dai fin troppa», aveva continuato quella. «Questi bambini
sono una lagna e ti si attaccano addosso come zecche. Non so come fai a
sopportarlo. Io me ne sarei sbarazzata con una bella strigliata».
A quel punto Florence non aveva più replicato, però aveva riferito a Giorgio
quella conversazione e lo aveva esortato a giocare più spesso con i suoi
compagni.
Allora Giorgio le aveva scritto una lettera. «Perché non te ne infischi delle
altre maestre? Non vedi che stanno sempre a spettegolare? Possibile che tu non
sia libera di stare con chi ti pare? Io ho bisogno di parlare con te. Solo tu
puoi capire le domande che mi passano per la testa e i dubbi che sento dentro
di me. Ti prego, almeno durante gli intervalli, continuiamo a stare insieme e a
parlarci».
Dopo aver letto la sua lettera, Florence aveva preso da parte Giorgio e gli
aveva detto: «Quando ti ho invitato a giocare con i tuoi compagni, l'ho detto
per non metterti in imbarazzo. Non voglio che le altre insegnanti stiano sempre
ad indicarti col dito».
«Loro non sono le mie maestre e non possono farmi niente».
«Non è proprio così. Bada di non mandarle al diavolo un'altra volta, perché
potrebbero rivolgersi al direttore e fartela pagare lo stesso».
«Starò più attento. Ma sono insopportabili», aveva detto Giorgio, rivolgendole
un sorriso di complicità e alzandosi sulla punta dei piedi per scoccarle un
bacio sulla guancia.
Florence lo aveva seguito con lo sguardo mentre si allontanava a gambe levate e
si era passata due dita sul punto dove Giorgio le aveva impresso il suo bacio.
Perplessa, continuò la sua passeggiata sotto il porticato. Quando vide
affacciarsi le altre maestre, fece uno scarto e si nascose dietro un pilastro
di cemento.
Ben presto, tuttavia, Giorgio dovette fare i conti non solo con le insegnanti,
ma anche con i suoi compagni di classe. Soprattutto con Franco, Roberto e
Giuliano, che avevano preso male la sua defezione dalla squadra e lo avevano
invitato invano a riprendere il suo ruolo nelle partite che disputavano con le
altre classi durante gli intervalli in cortile.
«Mi fanno male le gambe», «Mi gira la testa», «Mi
viene da vomitare», erano state le scuse di Giorgio, per restare con Florence e
sottrarsi agli impegni di squadra.
«Mi sembri una femminuccia», gli aveva rinfacciato Roberto. «Ho male qui, ho
male lì, ho male là».
«La verità è che ti sei stufato di giocare con noi», gli aveva detto Giuliano,
che con la sua zazzera rossa e il suo naso a becco aveva tormentato Giorgio sin
dal primo giorno che si erano conosciuti a scuola. Giorgio sospettava che
Giuliano fosse semplicemente invidioso di lui. Giorgio, infatti, era bravissimo
in tutto. Giuliano, invece, non riusciva a mettere insieme nemmeno tre righe.
Ad ogni modo, per mettere fine a quelle proteste e a quelle punzecchiature
insistenti, Giorgio aveva deciso di inventarsi una grave malattia.
«La settimana scorsa, mia madre mi ha fatto visitare da uno specialista», disse
un giorno ai compagni. «Purtroppo abbiamo scoperto che c'è qualcosa che non va
nel mio cuore. In conclusione, mi è stato proibito di correre e di affaticarmi.
Dunque non posso nemmeno giocare a calcio».
Sulle prime, i tre erano rimasti a bocca aperta. Sembravano decisamente
impressionati dalla notizia e non sapevano cosa dire.
Poi, però, Giuliano aveva avuto un guizzo cattivo negli occhi, aveva dimenato
la testa, si era fatto una gran risata e aveva detto: «E voi gli credete? È
un'altra scusa delle sue per non giocare con noi. Lui la testa non ce l'ha più
al pallone, perché preferisce metterla tra le poppe della maestra».
Boccheggiando di rabbia, Giorgio gli era andato addosso a testa bassa. Giuliano
aveva perso l'equilibrio, ma prima di rotolare a terra aveva reagito d'istinto
e con un calcio aveva colpito Giorgio nella pancia. Franco e Roberto erano
scattati per solidarietà con il compagno e Giorgio era stato sommerso da una
gragnuola di pugni, di schiaffi e di calci che lo avevano lasciato intontito e
sanguinante.
Mentre lo medicava in infermeria, Florence gli ripeteva: «Allora, vuoi dirmi
com'è successo? Perché vi siete picchiati in modo così forsennato? Guarda qui,
hai anche un labbro spaccato».
Giorgio faceva fatica a trattenere i singhiozzi che gli chiudevano la gola, e
non rispondeva.
«Perché tre contro uno, poi?», insisteva Florence. «Sei stato tu a provocarli?
Non posso crederci. Non vuoi rispondere? Eppure bisogna che io sappia, perché a
tua madre dovrò pur dire qualcosa per giustificare questi graffi e questi
cerotti».
«A mia madre dirò che sono inciampato mentre correvo... Mi crederà», si
affrettò allora a rispondere Giorgio, che voleva dimenticare presto l'occasione
di quella batosta.
Florence, però, non lo aveva lasciato andare senza prima parlare con la madre,
che era venuta a prenderlo in auto. Anzi, aveva finito col salire in macchina
anche lei e aveva accompagnato Giorgio fino a casa.
«Venga signorina», aveva detto la madre di Giorgio. «È da un pezzo che volevo
invitarla a prendere una tazza di tè da noi. So che Giorgio la stima molto. Io
purtroppo sono sempre impegnata col mio lavoro di pubblicitaria e ho avuto
finora scarse occasioni per parlare con lei. Approfittiamo di questo infortunio
per fare due chiacchiere. Vuole?».
«Mi dispiace», aveva detto più tardi Florence, mentre sorbiva il suo tè, e
indicando con la testa Giorgio che se ne stava acquattato silenzioso in
poltrona.
«Oh, non si preoccupi», aveva detto la madre di Giorgio. «Sono bisticci di
ragazzi. Sa, io non ci faccio troppo caso, come è invece abitudine di molte
madri. Secondo me i ragazzi devono imparare a sbucciarsi le ginocchia e a
rompersi la testa. L'importante è che ne vengano fuori senza troppi danni».
«Il fatto è, che è la prima volta che gli succede», aveva detto Florence.
«È vero», ammise la madre di Giorgio, lanciando un'occhiata al figlio. «Giorgio
è in genere un bambino tranquillo, anche se un po' sognatore. Finora non mi ha
dato eccessive preoccupazioni. È una fortuna per me. Suo padre, infatti, in
casa si vede poco. Fa l'ingegnere aeronautico: un mestiere che a lui piace
molto, ma che lo tiene sul chi vive in varie parti del mondo».
«Allora Giorgio è spesso solo in casa», aveva osservato Florence.
«Sì, ma lui sa cavarsela benissimo. Vero, tesoro?», aveva chiesto la donna al
figlio, con un sorriso compiaciuto.
Giorgio aveva continuato a guardarsi la punta delle scarpe e non aveva
risposto. Florence era riuscita subito simpatica alla madre di Giorgio. Perciò
di tè pomeridiani ce ne furono altri.
Una sera Florence fu addirittura invitata a cena.
«Mi fa piacere che abbia accettato», disse la madre di Giorgio accogliendo
Florence sulla porta. «Giorgio era fuori di sè dalla gioia quando gli ho
parlato della mia intenzione di invitarla. Si è solo raccomandato che non lo
sappia nessuno dei suoi compagni di classe».
Giorgio si era affacciato nel corridoio e contemplava Florence ammutolito, come
se la vedesse per la prima volta.
«Vorrei farti vedere la mia camera», le disse.
«Volentieri», disse Florence, che gli diede la mano e lo seguì.
«Ecco, questa è la mia scrivania, questo è il mio letto, questi sono i miei
libri e questo è un Pinocchio di legno che mi ha regalato mio padre. E poi
voglio farti vedere un'altra cosa».
Giorgio si avvicinò al cassetto del suo comodino da notte, lo aprì e ne tirò
fuori un quaderno blu bordato di rosso. Lo mostrò a Florence e le disse:
«Questo è il mio diario personale. Non ho mai detto a nessuno di averlo, perché
mi vergogno».
«Come mai?»
«Perché i diari li tengono solo le bambine».
«Non è mica vero. Mio fratello ne ha tenuto uno per alcuni anni».
«Davvero?».
«È così».
«Vorresti leggerlo?».
«No. Non mi piace mettere il naso nei segreti degli altri. A meno che non mi
sia proposto dai diretti interessati. Ma anche in quel caso, esito. Non vorrei
proprio che poi si pentissero di avermeli rivelati».
«Che cosa vuoi dire? Che non sai mantenere i segreti?»
«Al contrario. So conservarli come in una cassaforte. Specialmente se si tratta
dei segreti di un bambino».
Giorgio la fissò e non disse nulla. Indugiò qualche attimo con il suo quaderno
tra le mani, poi andò a riporlo nel cassetto.
«Sono contento che sei venuta», disse stringendo Florence alla vita con le
braccia.
«Tua madre è stata gentile ad invitarmi e non c'erano motivi per rifiutare. Del
resto, per un'insegnante è molto utile vedere l'ambiente in cui abita un
alunno. Dopo, si capiscono molte più cose di lui».
«Ah, sì? E adesso che hai visto la mia camera, cos'hai capito in più di me, che
prima non conoscevi?»
Florence fu sorpresa dalla domanda rivoltale in un tono tra il serio e lo
scherzoso, e rimase a guardare Giorgio in silenzio. «Io... dicevo così in
generale», rispose infine prendendogli il viso tra le mani. «Secondo me, ti
conoscevo bene anche prima di vedere la tua camera. Mi racconti tante cose di
te».
«Tante, ma non tutte», mormorò Giorgio.
«Hm, ritorniamo ai segreti. Se proprio vuoi raccontarmeli, sono disposta ad
ascoltarti».
«Vieni, accomodati su questa poltrona vicino alla finestra», le disse Giorgio
tirandola con una mano. «Io mi ci siedo tutte le volte che leggo un libro. I
miei libri più belli li ho letti acquattato su questi cuscini imbottiti».
«È davvero molto comoda», disse Florence sprofondandoci.
«Ci si sta benissimo anche in due», osservò Giorgio con un tremito nella voce.
E aggiunse: «Posso sedermi vicini a te?».
Florence si spostò di lato, allungò sulle ginocchia le falde del suo vestito a
fiori e gli fece spazio accanto a sé.
«Ecco», disse, «siediti pure».
«Quanti anni hai?», le chiese Giorgio.
«In genere le donne non amano dire la loro età. Ma io non ho nessuna difficoltà
a rivelarti questo mio segreto. Ho ventotto anni».
«Davvero? Sembri molto più giovane».
«Non si può dire che non sai fare i complimenti a una donna», disse Florence
sorridendo e arruffandogli i capelli.
«Non l'ho detto per farti un complimento. È perché mi sembri davvero molto più
piccola. Per me, tu è come se fossi una ragazza».
«Be', anche ai complimenti c'è un limite. Non bisogna mai strafare. Una
ragazza! Ricordati che, dopotutto, io sono la tua insegnante e tu sei un mio
alunno».
«Perché dici che sono un tuo alunno?»
«Perché, non è vero forse?»
«Io sono un tuo amico».
«Certo. Ma prima di tutto sei un mio alunno».
«Non mi piace che mi chiami alunno. Chiamami Giorgio e basta».
Prima che Florence potesse replicare, arrivò dalla cucina la voce della madre
di Giorgio: «La cena è pronta. Giorgio, ricorda di lavarti le mani».
A tavola quella sera Giorgio parlò poco. Si limitò a guardare di sottecchi
Florence e a seguire i movimenti della sua forchetta. Florence mangiava a
piccoli bocconi e masticava a lungo, al contrario di lui, che divorava tutto in
fretta. Quella sera, tuttavia, Giorgio mangiò pochissimo.
«Non sei mai stato così poco generoso con i tuoi funghi e il tuo vitello», gli
disse ad un certo punto sua madre.
«Mamma, come parli?», fu lì lì per replicare Giorgio. Ma si trattenne e non
disse nulla. Ad ogni modo, si sforzò di mangiare un po' di più, perché non
voleva attirare l'attenzione su di sè. Preferiva che le due donne parlassero
tra loro, per avere la possibilità di osservare Florence con comodo.
Più tardi, Florence sarebbe andata via da casa sua, e per lui sarebbe stato
come vederla sparire dalla sua vita.
(...)
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