Diario di scuola Pennac, Daniel (...) Ma, diventato
insegnante, seppi d’istinto che era inutile brandire il futuro sotto il naso
dei miei allievi peggiori. A ogni giorno la sua pena, e a ogni ora di quella
giornata, purché in essa si sia pienamente presenti, insieme. E io, da bambino,
in essa non c’ero. Mi bastava entrare in un’aula per uscirne. Mi sembrava che
lo sguardo verticale del maestro fosse come uno di quei raggi venuti giù dai
dischi volanti e mi strappasse dalla sedia per scagliarmi istantaneamente
altrove. Dove? Esattamente nella sua testa! La testa del maestro! Era il
laboratorio del disco volante. Il raggio mi posava lì. E lì veniva misurata
tutta la mia nullità, dopodiché ero risputato fuori, con un altro sguardo, come
un detrito, e rotolavo in una discarica dove non potevo capire né ciò che mi
insegnavano, né peraltro cosa la scuola si aspettasse da me visto che ero
ritenuto un incapace. Questo verdetto mi offriva le compensazioni della
pigrizia: a che pro darsi da fare se le massime autorità reputano che non ci
sia niente da fare? Come si vede, sviluppavo una certa propensione alla
casistica. È una forma mentis che, da insegnante, individuavo subito nei miei
somari. Poi venne il mio primo salvatore. Un professore di francese. In prima
superiore. Che mi scoprì per quello che ero: un affabulatore sincero e allegramente
suicida. Colpito forse dalla mia propensione ad affinare scuse sempre più
fantasiose per le lezioni non studiate o i compiti non fatti, decise di
esonerarmi dai temi per commissionarmi un romanzo. Un romanzo che dovevo
redigere nell’arco del trimestre, in ragione di un capitolo alla settimana.
Soggetto libero, ma preghiera di consegnare i miei fascicoli senza errori di
ortografia “per elevare il livello della critica”. (Ricordo questa espressione
mentre ho dimenticato tutto del romanzo.) Questo professore era un uomo molto
anziano che ci dedicava gli ultimi anni della sua vita. Forse arrotondava la
pensione in quell’istituto quanto mai privato della periferia nord di Parigi.
Un vecchio signore di una eleganza desueta, che aveva individuato il narratore
in me. Si era detto che, disortografia a parte, bisognava far leva sulla mia
propensione al racconto se si voleva avere una qualche probabilità di aprirmi
allo studio. Scrissi quel romanzo con entusiasmo. Ne correggevo scrupolosamente
ogni parola aiutandomi con il dizionario (che, da quel giorno, non mi ha più
lasciato), e consegnavo i miei capitoli con la puntualità di un autore
professionista di romanzi d’appendice. Immagino che fosse una storia
tristissima, influenzato com’ero allora da Thomas Hardy, i cui romanzi vanno da
un malinteso a una catastrofe e da una catastrofe a un tragedia irreparabile,
cosa che deliziava il mio gusto per il fatum: niente da fare sin dall’inizio, è
quel che penso anch’io. Non credo di aver fatto significativi progressi in alcunché,
quell’anno, ma per la prima volta nella mia carriera scolastica un insegnante
mi conferiva uno status; esistevo scolasticamente per qualcuno, come un
individuo che aveva una linea da seguire, e che teneva duro. Sconfinata
gratitudine per il mio benefattore, ovviamente, e benché fosse molto riservato,
l’anziano signore divenne il confidente delle mie letture segrete. “Allora, che
cosa sta leggendo, Pennacchioni, in questo momento?” Poiché c’era la lettura.
Non sapevo, allora, che mi avrebbe salvato. |