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Lunario dei giorni di scuola


Appendice ventunesimo

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Diario di scuola

Pennac, Daniel

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 Ma, diventato insegnante, seppi d’istinto che era inutile brandire il futuro sotto il naso dei miei allievi peggiori. A ogni giorno la sua pena, e a ogni ora di quella giornata, purché in essa si sia pienamente presenti, insieme. E io, da bambino, in essa non c’ero. Mi bastava entrare in un’aula per uscirne. Mi sembrava che lo sguardo verticale del maestro fosse come uno di quei raggi venuti giù dai dischi volanti e mi strappasse dalla sedia per scagliarmi istantaneamente altrove. Dove? Esattamente nella sua testa! La testa del maestro! Era il laboratorio del disco volante. Il raggio mi posava lì. E lì veniva misurata tutta la mia nullità, dopodiché ero risputato fuori, con un altro sguardo, come un detrito, e rotolavo in una discarica dove non potevo capire né ciò che mi insegnavano, né peraltro cosa la scuola si aspettasse da me visto che ero ritenuto un incapace. Questo verdetto mi offriva le compensazioni della pigrizia: a che pro darsi da fare se le massime autorità reputano che non ci sia niente da fare? Come si vede, sviluppavo una certa propensione alla casistica. È una forma mentis che, da insegnante, individuavo subito nei miei somari. Poi venne il mio primo salvatore. Un professore di francese. In prima superiore. Che mi scoprì per quello che ero: un affabulatore sincero e allegramente suicida. Colpito forse dalla mia propensione ad affinare scuse sempre più fantasiose per le lezioni non studiate o i compiti non fatti, decise di esonerarmi dai temi per commissionarmi un romanzo. Un romanzo che dovevo redigere nell’arco del trimestre, in ragione di un capitolo alla settimana. Soggetto libero, ma preghiera di consegnare i miei fascicoli senza errori di ortografia “per elevare il livello della critica”. (Ricordo questa espressione mentre ho dimenticato tutto del romanzo.) Questo professore era un uomo molto anziano che ci dedicava gli ultimi anni della sua vita. Forse arrotondava la pensione in quell’istituto quanto mai privato della periferia nord di Parigi. Un vecchio signore di una eleganza desueta, che aveva individuato il narratore in me. Si era detto che, disortografia a parte, bisognava far leva sulla mia propensione al racconto se si voleva avere una qualche probabilità di aprirmi allo studio. Scrissi quel romanzo con entusiasmo. Ne correggevo scrupolosamente ogni parola aiutandomi con il dizionario (che, da quel giorno, non mi ha più lasciato), e consegnavo i miei capitoli con la puntualità di un autore professionista di romanzi d’appendice. Immagino che fosse una storia tristissima, influenzato com’ero allora da Thomas Hardy, i cui romanzi vanno da un malinteso a una catastrofe e da una catastrofe a un tragedia irreparabile, cosa che deliziava il mio gusto per il fatum: niente da fare sin dall’inizio, è quel che penso anch’io. Non credo di aver fatto significativi progressi in alcunché, quell’anno, ma per la prima volta nella mia carriera scolastica un insegnante mi conferiva uno status; esistevo scolasticamente per qualcuno, come un individuo che aveva una linea da seguire, e che teneva duro. Sconfinata gratitudine per il mio benefattore, ovviamente, e benché fosse molto riservato, l’anziano signore divenne il confidente delle mie letture segrete. “Allora, che cosa sta leggendo, Pennacchioni, in questo momento?” Poiché c’era la lettura. Non sapevo, allora, che mi avrebbe salvato.

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