Gli
anni della nostalgia Kenzaburo
Oe Garzanti
Ora voglio parlarvi di un’altra mia preoccupazione
dell’epoca, la più grande: l’evoluzione della guerra. La guerra era ormai nella
fase finale e non sembrava potesse aspettare che io crescessi abbastanza per
andare al fronte. Si parlava dello spostamento del fronte su territorio
metropolitano per la battaglia decisiva. Se questo si fosse verificato, i
cacciabombardieri B29 sarebbero entrati dal lato del Pacifico, avrebbero
superato la catena di montagne che divideva in due lo Shikoku e sarebbero
arrivati fino alla città di Matsuyama. In seguito il nemico avrebbe raggiunto
persino questa parte più profonda della foresta e, a questo punto, avremmo
dovuto affrontarli con le lance di bambù. Cosa sarebbe successo alla foresta?
Sarebbe andata completamente a fuoco sotto i bombardamenti? Questa era la mia
preoccupazione più grande. Un giorno, poco prima della fine della guerra, la
nostra maestra, seguendo le indicazioni del direttore della scuola, che era
seduto al suo fianco, fece a ognuno di noi una domanda. La fisionomia della
maestra, dai tratti molto infantili, col passare del tempo si è affievolita
nella mia mente, lasciandomi nella memoria solo qualche espressione
particolare. Ma quella del direttore, con la divisa popolare, mi è rimasta così
profondamente scolpita nella mente, che ancora oggi compare nei miei incubi,
con la sua testa simile alla punta arrotondata di un palo di legno, con i
capelli a spazzola attraversati da una striscia bianca e i capillari gonfi che
coprivano i bulbi oculari sporgenti. «Quando ci sarà la battaglia decisiva sul
nostro territorio», ci chiese la maestra, «se Sua Maestà l’Imperatore ti darà
l’ordine di morire, cosa farai?». La risposta ci era stata insegnata in
precedenza. Infatti, dette la risposta giusta persino il bambino più ottuso
della classe, quello che quando tutti giocavano non faceva altro che borbottare
e restarsene in disparte a osservare con gli occhi rossi pieni di cispa.
«Morirò! Morirò! Farò harakiri!». Un bambino rifugiato da Kōbe, di carnagione
scura e dai lineamenti ben marcati disse: «Morirò combattendo! E se dovessi
sopravvivere, farò harakiri!». La sua risposta razionale mi colpì
positivamente, nonostante fino al quel momento non mi fosse stato granché
simpatico. Quando toccò a me, invece, in piedi davanti alla predella della
cattedra tutta rovinata, non riuscii a fare altro che arrossire e rimanere in
silenzio con aria impacciata. Gli occhi della maestra ben felici e soddisfatti
della risposta del bambino che era andato alla cattedra prima di me, in un
attimo diventarono freddi. A questo punto si verificò quello che già tante
volte si era verificato in precedenza: il direttore si alzò lentamente dalla
sedia di legno: «Sempre tu!», gridò con voce squillante ed eccitata, scosse
ripetutamente le spalle per riscaldarsi e si mise in posizione di guardia.
Quello stesso giorno, mi recai, come al solito, alla villa di Gii. Tenevo la
testa ostinatamente bassa, avevo vergogna di mostrare la mia faccia rossa e
gonfia per i venti pugni che il direttore mi aveva assestato, |