La mano nel cappello
Nicola Cinquetti
(...) I miei insegnanti non erano quegli orchi e
polifemi che avevo immaginato prima di iniziare la scuola. Erano persone
piuttosto bonarie, prive d'animosità. In particolare, le mie simpatie si
rivolgevano alla professoressa di italiano, la signora Eugenia Manzi. Se i
primi giorni rimasi colpito anzitutto dalla sua mandibola sporgente e dal
leggero strabismo dei suoi occhi, a poco a poco apprezzai sempre di più la
chiarezza della sua personalità e la serenità che riusciva a diffondere in
classe durante le lezioni. A differenza degli altri professori, ci chiamava per
nome e dimostrava un interesse particolare per ciascuno di noi. Dopo le prime
prove di italiano, cominciò a incoraggiarmi, dicendo che nello scritto rivelavo
di sapermi esprimere e di essere riflessivo: - Mi piacerebbe che tu portassi il
tuo contributo anche nelle discussioni che teniamo in classe.
Durante le ore di italiano, si affrontava spesso una tematica di attualità. A
partire da una lettura tratta dall'antologia, l'insegnante avviava la conversazione,
cercando di coinvolgere tutti. Trattammo così numerosi argomenti, dai problemi
della scuola a quelli dell'adolescenza, dalla condizione della donna alla
questione religiosa.
Una mattina, era ormai autunno inoltrato, si lesse in classe un brano inerente
alla problematica dell'handicap, la lettera aperta di una madre, che raccontava
la sua esperienza di vita con una figlia disabile. La professoressa ci chiese
se conoscevamo l'origine della parola handicap. Nessuno seppe rispondere con
precisione, e allora ci spiegò che si tratta di un termine di derivazione
inglese:
- E' una parola usata nel mondo delle corse ippiche, dove vengono assegnati
svantaggi iniziali ai cavalli più forti, in modo da riequilibrare la gara.
Handicap vuole dire dunque svantaggio, ma letteralmente il suo significato è da
scomporre nell'espressione hand in cap, in italiano mano nel cappello: forse
perché da un cappello venivano estratti a sorte i numeri che assegnavano le
posizioni di partenza ai cavalli in gara.
Io ascoltavo e pensavo alla sera in cui Geremia aveva tratto con la mano, dal
suo cappello nero, festosi coriandoli colorati. La professoressa Manzi ci
domandò allora se avevamo mai conosciuto persone con handicap. Io sussultai
dentro di me, combattuto tra il desiderio di intervenire e il timore di
impaperarmi.
Parlò un mio compagno, Giovanni : - Quando vado in vacanza, d'estate, c'è un
handicapato in carrozzina, un ragazzo, che abita vicino a noi. Io lo saluto, ma
non ho fatto amicizia. A volte mi piacerebbe avvicinarmi a lui, ma poi non so
cosa dire, non so cosa fare.
La professoressa annuì, senza commentare.
- Anch'io - intervenne Anna De Marchi - conosco degli handicappati. C'è un
centro per loro nel mio quartiere, e li vedo tutti i pomeriggi, poveretti,
quando partono con il furgone.
- Perché hai detto poveretti? - domandò l'insegnante.
- Perché... perché sono così - rispose Anna, sorpresa per la domanda.
- Hai mai parlato con loro?
- Sinceramente... no.
- Perché?
- Perché. . . non so. Non li conosco.
- Io l'anno scorso a Natale - disse invece Marino - sono andato con il mio
gruppo a cantare in un istituto per handicappati. E stato bello, ci hanno fatto
una grande festa, alla fine non volevano più lasciarci andare via.
- Poi non sei più tornato? -, domandò la professoressa.
- No, ma forse a Natale ci andremo ancora.
Io seguivo i discorsi dei miei compagni con estrema attenzione. C'era qualcosa,
nelle loro frasi, che mi metteva un po' a disagio. Forse era quella lunga
parola, che ripetevano in continuazione: handicappati.
La pronunciavano in modo strano, un po' come se dicessero: extraterrestri. Ma
chi sono, gli handicappati? I miei amici della cascina? Oh, no quelli sono
Carlo, Lorenzo, Francesca. . . Cominciai a pensare che i miei compagni, anche i
più bravi, avessero un'idea un po' falsata riguardo a quelle persone.
Nel tono delle loro frasi percepivo un'ansia, un senso di paura. Già, doveva
essere cosi: i miei compagni avevano paura, la stessa che avevo avuto io quel
giorno, prima di entrare alla cascina, paura di trovarsi di fronte a uomini e
donne carichi solo di dolore e di stranezze. Anch'io, quella sera, prima di
suonare il campanello, avevo temuto, come Giovanni, di non sapere cosa dire e
cosa fare. Erano passati alcuni mesi, e nel frattempo qualcosa era cambiato.
Alzai la mano. La professoressa mi guardò benevolmente e mi diede la parola: -
Di fronte a casa mia c'è una comunità dove vivono cinque di queste persone: si
chiamano Carlo, Lorenzo, Geremia, Costanza e Francesca. Non è tanto che abito
lì, è da questa estate. Quando sono arrivati, io ero molto incuriosito, ma
avevo paura ad avvicinarli. Li guardavo da lontano, mi sembravano strani. Poi,
un giorno mi hanno invitato a una festa di compleanno. Io non sarei voluto
andare, ma non sono riuscito a dire di no. Prima di entrare, quella sera,
davanti al cancello, mi sono domandato anch'io:
<<Che cosa dovrò fare? Che cosa dovrò dire?>>. Sono entrato, e ho
scoperto che non dovevo fare niente di particolare, e non dovevo dire niente di
particolare. E stato molto più semplice di quanto credessi, perché sono
persone. . . come posso spiegarmi?. . . Vere, sono persone vere. Da quel giorno
siamo diventati amici, eppure io non sono certo un ragazzo spigliato,
tutt'altro: se è stato possibile per me, può esserlo per tutti.
I miei compagni mi avevano ascoltato in silenzio. Qualcuno, alla fine, aveva
sorriso, ma per simpatia. Sorrise anche la professoressa, che mi disse: -
Allora, se vuoi, William, sei capace di parlare! E proprio cosi difficile?
- Beh. . . no. . . Un po'. . .
- E mi sembra - continuò - che tu sappia anche dire cose intelligenti!
- Insomma. . .
Durante la ricreazione, quella mattina, un gruppetto di compagni mi si
avvicinò.
Non era mai accaduto. Vollero sapere qualcosa di più sui miei amici della
cascina e poi mi rivolsero molte domande su di me, volevano conoscermi. Uno mi
offrì metà della sua merenda, un altro mi propose di andare nel banco con lui,
poiché il suo compagno si era ritirato. Io sorridevo a tutti, frastornato da
tutte quelle attenzioni. Al termine delle lezioni, Alberto, il mio nuovo
compagno di banco, decise di prendere il mio stesso autobus fino alla stazione:
- Allungo un po' la strada, ma lo è stesso.
Sull'automezzo parlammo senza soste dei più svariati argomenti, e scoprii che
Alberto aveva una bicicletta da corsa, come me, ed era un appassionato delle
gare di ciclismo, e ogni anno saltava un giorno di scuola per andare sulle
Dolomiti a vedere la tappa del Giro d'Italia. Anche lui sapeva suonare la
chitarra, e aveva gli stessi miei gusti musicali. Parlammo dei nostri
insegnanti... (...)
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