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Lunario dei giorni di scuola


Appendice quindicesimo

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Ada Negri

La Cacciatora

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Le fatiche della scuola non mi davano alcun pensiero. Insegnavo nella prima classe dei maschi.  Quegli ottanta o novanta diavoli scatenati, che m'irrompevano nell'aula, in gran parte sporchi, puzzolenti di concio e di stalla, pieni di pidocchi e di monellerie, mi piacevano appunto perché, in certo qual modo, fra essi mi sentivo un diavolo scatenato anch'io.  Come ciò riuscisse a combinare coi doveri dell'insegnamento e col progresso di quei ragazzi nell'alfabeto e nell'abbaco, lo ignoro. Ma combinava.  Pochissimi di loro portavano calze e scarpe, blusetta e calzoncini in ordine, e si presentavano col viso e le mani lavate: i figli del sindaco, ch'era un fittabile; del segretario; del droghiere; da contarsi sulle dita.  Certe povere mamme col giallore della pellagra in faccia, incontrandomi per via, mi gridavano a bruciapelo:       - Giù botte, sa, scióra maàstra.  Non abbia paura:non c'è altro da fare con quel barabba del mio ragazzo: l'è a fin de ben.
Botte, no; Dio guardi.  Ma urlare con loro e più di loro, sì: additando sui cartelloni figure d'animali e d'ortaggi, scrivendo sulla lavagna sillabe e cifre, girando fra i banchi con l'illusione di mettere un po' d'ordine nel passeraio, urlavo, urlavo sempre, da divenirne rauca. Riuscivo ad addolcire la voce solo in fantastici racconti coi quali godevo calmare la loro irrequietezza: il tuffo nel meraviglioso li rinfrescava, li rendeva miti come agnelli; ed io ne approfittavo per giungere attraverso la favola a insegnar loro, di sorpresa, cose a cui non avrebbero, altrimenti, prestato attenzione.
Mi amavano.  Sentivo che mi amavano.  Non come una maestra: bensì come una compagna grande.  Durante le passeggiate del giovedì al Guado della Signora, e, di là, lungo il greto del fiume, non oso dire qual fosse, fra loro e me, il più acceso a scoprir sassi e pietruzze variopinte, a cogliere gigli d'acqua e malve selvatiche, a ingollar more, ferendosi gambe e mani nell'intrico dei rovi. I più svelti mi portavano in classe fiori, lumache, spighe, semi speciali, bestioline bizzarre, con cui s'improvvisavano lezioni e conversazioni gustose.  Ma il baccano, vorrei dire, amorevole, diveniva a volte così acuto nel tono, così impressionante, che il maestro Argentieri, dall'aula di seconda e terza riunite, attigua alla mia, spalancava la porta, saliva sulla pedana della cattedra, e standosene ritto in silenzio con le braccia conserte, rimetteva in dieci secondi le cose a posto.  Nemmeno una parola: la conosceva a fondo, lui, la potenza del silenzio. Alto, asciutto, lentigginoso, con una vampa rossa di capelli a sommo della fronte e due occhi turchini quasi senza ciglia, penetranti a succhiello, me li stregava in un baleno, quei manigoldi; e, in verità, stregava anche me.  Nessuno più tirava il fiato. Era, lo confesso, un gran bel vedere, e un gran riposo, per qualche minuto: salvo poi a riconúnciare, quando il maestro aveva fatto dietro-front, ed era tornato ai fatti suoi.  Alle spalle, sottovoce, lo chiamavano el Rossin.  Me li avrebbe bocciati tutti agli esami, e con soddisfazione, se gli fosse riuscito. Ma non poteva: facevan miracoli, e non parevano più loro; e io mi gonfiavo d'intima contentezza.
Candidi risvegli, il mattino.  Mi destava, immancabúmente, la fragranza del pane caldo, appena sfornato, che Chiarascura, fin dalle prime ore, vendeva, in silenzio, alle operaie della filanda e della fabbrica di battúòro, alle massaie, alle contadine. Fragranza che mi faceva palpitar le narici e mi dilatava il cuore e mi buttava giù dal letto con la gioia di cominciare una nuova giornata, d'amore e d'accordo col sole e la pioggia, il freddo e il caldo, il previsto e l'imprevisto.  Poteva essere il più duro inverno, che l'odor del pane caldo richiamava in me l'immagine delle spighe di luglio, fiammeggianti in attesa della falce, e delle pannocchie d'agosto, ben costipate ne' cartocci ruvidi, con grani gemelli di cui non uno guasto, col bel pennacchio ricadente, d'un bruno rossiccio tal quale come i miei capelli.
Allora mi lavavo con gran brividi e sbuffi, mi vestivo alla diavola, e dalla scaletta esterna mi precipitavo nello stanzone del torchio: là sgranocchiavo non so quanti panetti.  Non li volevo intingere nella ciotola del latte ancora schiumante e tepido di mungitura; ma preferivo gustarne il sapore di grano e farmeli crocchiare sotto i denti: il latte lo bevevo poi a sorsate. E via, a scuola.
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