Ada Negri
La Cacciatora
(…)
Le
fatiche della scuola non mi davano alcun pensiero. Insegnavo nella prima classe
dei maschi. Quegli ottanta o novanta
diavoli scatenati, che m'irrompevano nell'aula, in gran parte sporchi,
puzzolenti di concio e di stalla, pieni di pidocchi e di monellerie, mi
piacevano appunto perché, in certo qual modo, fra essi mi sentivo un diavolo
scatenato anch'io. Come ciò riuscisse a
combinare coi doveri dell'insegnamento e col progresso di quei ragazzi
nell'alfabeto e nell'abbaco, lo ignoro. Ma combinava. Pochissimi di loro portavano calze e scarpe,
blusetta e calzoncini in ordine, e si presentavano col viso e le mani lavate: i
figli del sindaco, ch'era un fittabile; del segretario; del droghiere; da
contarsi sulle dita. Certe povere mamme
col giallore della pellagra in faccia, incontrandomi per via, mi gridavano a bruciapelo: - Giù
botte, sa, scióra maàstra. Non abbia paura:non c'è
altro da fare con quel barabba del mio ragazzo: l'è a fin
de ben.
Botte,
no; Dio guardi. Ma urlare con loro e più
di loro, sì: additando sui cartelloni figure d'animali e d'ortaggi, scrivendo
sulla lavagna sillabe e cifre, girando fra i banchi con l'illusione di mettere
un po' d'ordine nel passeraio, urlavo, urlavo sempre, da divenirne rauca.
Riuscivo ad addolcire la voce solo in fantastici racconti coi quali godevo
calmare la loro irrequietezza: il tuffo nel meraviglioso li rinfrescava, li
rendeva miti come agnelli; ed io ne approfittavo per giungere attraverso la
favola a insegnar loro, di sorpresa, cose a cui non avrebbero, altrimenti,
prestato attenzione.
Mi
amavano. Sentivo che mi amavano. Non come una maestra: bensì come una compagna
grande. Durante le passeggiate del
giovedì al Guado della Signora, e, di là, lungo il greto del fiume, non oso
dire qual fosse, fra loro e me, il più acceso a scoprir sassi e pietruzze
variopinte, a cogliere gigli d'acqua e malve selvatiche, a ingollar more,
ferendosi gambe e mani nell'intrico dei rovi. I più svelti mi portavano in
classe fiori, lumache, spighe, semi speciali, bestioline bizzarre, con cui
s'improvvisavano lezioni e conversazioni gustose. Ma il baccano, vorrei dire, amorevole,
diveniva a volte così acuto nel tono, così impressionante, che il maestro
Argentieri, dall'aula di seconda e terza riunite, attigua alla mia, spalancava
la porta, saliva sulla pedana della cattedra, e standosene ritto in silenzio
con le braccia conserte, rimetteva in dieci secondi le cose a posto. Nemmeno una parola: la conosceva a fondo,
lui, la potenza del silenzio. Alto,
asciutto, lentigginoso, con una vampa rossa di capelli a sommo della fronte e
due occhi turchini quasi senza ciglia,
penetranti a succhiello, me li stregava in un baleno, quei manigoldi; e, in
verità, stregava anche me. Nessuno più
tirava il fiato. Era, lo confesso, un
gran bel vedere, e un gran riposo, per qualche minuto: salvo poi a
riconúnciare, quando il maestro aveva fatto dietro-front, ed era tornato ai
fatti suoi. Alle spalle, sottovoce, lo
chiamavano el Rossin. Me li avrebbe
bocciati tutti agli esami, e con soddisfazione, se gli fosse riuscito. Ma non poteva: facevan miracoli, e non
parevano più loro; e io mi gonfiavo d'intima contentezza.
Candidi
risvegli, il mattino. Mi destava,
immancabúmente, la fragranza del pane caldo, appena sfornato, che Chiarascura,
fin dalle prime ore, vendeva, in silenzio, alle operaie della filanda e della
fabbrica di battúòro, alle massaie, alle contadine. Fragranza che mi faceva palpitar le narici e
mi dilatava il cuore e mi buttava giù dal letto con la gioia di cominciare una
nuova giornata, d'amore e d'accordo col sole e la pioggia, il freddo e il
caldo, il previsto e l'imprevisto.
Poteva essere il più duro inverno, che l'odor del pane caldo richiamava
in me l'immagine delle spighe di luglio, fiammeggianti in attesa della falce, e
delle pannocchie d'agosto, ben costipate ne' cartocci ruvidi, con grani gemelli
di cui non uno guasto, col bel pennacchio ricadente, d'un bruno rossiccio tal
quale come i miei capelli.
Allora
mi lavavo con gran brividi e sbuffi, mi vestivo alla diavola, e dalla scaletta
esterna mi precipitavo nello stanzone del torchio: là sgranocchiavo non so
quanti panetti. Non li volevo intingere
nella ciotola del latte ancora schiumante e tepido di mungitura; ma preferivo
gustarne il sapore di grano e farmeli crocchiare sotto i denti: il latte lo
bevevo poi a sorsate. E via, a scuola. (…)
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