Ali
Nere Alberto
Melis Il giorno dopo
la fucilazione dei fascistas nel Cimitero, Antton mi accompagnò in un
edificio a due piani color caffellatte, con un biglietto in mano. Sul
biglietto, firmato da un tenente del Comando Militare di Durango, c’era scritto
che Tomaso Serra, figlio di Arturo, capitano della Colonna Rosselli, poteva
frequentare la scuola “nella classe a lui più indicata”. Il Direttore,
per capire quale fosse, si accertò che conoscessi lo spagnolo e sapessi le
tabelline a memoria sino a quella del nove. Quindi mi condusse in un’aula al
pianterreno che ospitava trentotto ragazzini, tutti maschi, alcuni più piccoli
di me, e un insegnante ingrugnito che si chiamava Javier Garrido, ma che tutti
sottovoce chiamavano maestro Cinquenta Centavos, “cinquanta centesimi”. Il mio primo
giorno di scuola fu simile a tutti quelli che seguirono. In aula c’era una
continua baraonda alla quale il maestro Cinquenta Centavos cercava di opporsi
agitando in aria una bacchetta di legno. Le sue lezioni consistevano
soprattutto in dettati, letture ad alta voce, esercizi di geografia pratica su
un vecchio planisfero e problemi di geometria e aritmetica. Mai invece che ci
chiedesse di scrivere sul quaderno i nostri pensieri, su qualsiasi argomento,
fosse l’ultima partita di pelota giocata nel cortile della scuola, o la guerra che
si combatteva ormai in tutta la Spagna. Quando chiesi ad
Antton spiegazioni su questa stranezza, lui mi disse che era proprio per quel
motivo che Javier Garrido era stato soprannominato Cincuenta Centavos. — Molti dicono
che il maestro Garrido, nel suo cuore, abbia solo cinquanta centesimi di
coraggio. Nessuno sa per chi parteggi, se per la Repubblica o per i fascistas.
Ha una paura matta che a scuola si accendano delle discussioni e succeda
qualche guaio. Per questo non permette a nessun ragazzo di dire ciò che pensa. Ad andare a
caccia dei guai tanto temuti dal maestro Cinquenta Centavos ci pensavano ogni
giorno Gotzon e l’unico altro membro della Brigata che faceva parte della nostra
classe, un ragazzo con le lentiggini e un sorriso sfrontato che si chiamava
Joseba. Nessuno dei due aveva osato disturbarmi in alcun modo, forse per paura
che rivelassi in che modo erano fuggiti dal Cimitero. Ma spesso, durante la
ricreazione, facevano i prepotenti con quei compagni i cui genitori erano
sospettati di simpatie per Francisco Franco. Qualche giorno
dopo il mio ingresso a scuola, uno di loro, Bobito, un piccoletto magrissimo e
dai capelli sale e pepe che tutti in classe evitavano, perché il suo fratello
maggiore era andato via da Durango per arruolarsi col nemico, fuggì alle loro
grinfie e venne a ripararsi dietro di me. — Non è colpa
mia, se mio fratello combatte con i fascistas — piagnucolò. Indicò
Gotzon e il suo amico e aggiunse: — Gli ho detto che se non la piantano di
tormentarmi tu l’avresti detto alla tua amica strega, che gliela farà pagare
cara. Lo fissai
stupefatto. — Quale amica
strega? — Quella
ragazzina che ha gli occhi di due colori diversi — balbettò. — La sorguin. Per un istante
fui tentato di affrontare Gozton e Jozeba a muso duro, dato che potevano essere
stati solo loro a spargere la voce che io e Susa eravamo diventati amici, anche
se in realtà l’avevo vista solo una volta. Poi, invece, mi limitai a fissare i
due ragazzi sino a quando entrambi abbassarono gli occhi a terra. Dopo di che
andai dal maestro Cincuenta Centavos e gli parlai all’orecchio. Lui ingrugnì le
labbra più del solito, tanto che il suo muso avvizzito somigliò a quello di uno
dei pipistrelli che di giorno sonnecchiavano sotto le tegole del tetto. Schizzò
verso i due ragazzi e li costrinse faccia al muro, le gambe tese, in punta di
piedi, con le mani sollevate sopra la testa. — Cosa hai detto
al maestro? — mi chiese Bobito. — Che se quei
due non la piantano d’infastidire me e i compagni sarò costretto a lamentarmi
col Direttore. E anche al Comando Militare. Essere il figlio
del valoroso Capitano Serra aveva i suoi vantaggi. |