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Lunario dei giorni di scuola


Appendice quattordicesimo

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Ali Nere

Alberto Melis

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Il giorno dopo la fucilazione dei fascistas nel Cimitero, Antton mi accompagnò in un edificio a due piani color caffellatte, con un biglietto in mano. Sul biglietto, firmato da un tenente del Comando Militare di Durango, c’era scritto che Tomaso Serra, figlio di Arturo, capitano della Colonna Rosselli, poteva frequentare la scuola “nella classe a lui più indicata”.

Il Direttore, per capire quale fosse, si accertò che conoscessi lo spagnolo e sapessi le tabelline a memoria sino a quella del nove. Quindi mi condusse in un’aula al pianterreno che ospitava trentotto ragazzini, tutti maschi, alcuni più piccoli di me, e un insegnante ingrugnito che si chiamava Javier Garrido, ma che tutti sottovoce chiamavano maestro Cinquenta Centavos, “cinquanta centesimi”.

Il mio primo giorno di scuola fu simile a tutti quelli che seguirono. In aula c’era una continua baraonda alla quale il maestro Cinquenta Centavos cercava di opporsi agitando in aria una bacchetta di legno. Le sue lezioni consistevano soprattutto in dettati, letture ad alta voce, esercizi di geografia pratica su un vecchio planisfero e problemi di geometria e aritmetica. Mai invece che ci chiedesse di scrivere sul quaderno i nostri pensieri, su qualsiasi argomento, fosse l’ultima partita di pelota giocata nel cortile della scuola, o la guerra che si combatteva ormai in tutta la Spagna.

Quando chiesi ad Antton spiegazioni su questa stranezza, lui mi disse che era proprio per quel motivo che Javier Garrido era stato soprannominato Cincuenta Centavos.

— Molti dicono che il maestro Garrido, nel suo cuore, abbia solo cinquanta centesimi di coraggio. Nessuno sa per chi parteggi, se per la Repubblica o per i fascistas. Ha una paura matta che a scuola si accendano delle discussioni e succeda qualche guaio. Per questo non permette a nessun ragazzo di dire ciò che pensa.

Ad andare a caccia dei guai tanto temuti dal maestro Cinquenta Centavos ci pensavano ogni giorno Gotzon e l’unico altro membro della Brigata che faceva parte della nostra classe, un ragazzo con le lentiggini e un sorriso sfrontato che si chiamava Joseba. Nessuno dei due aveva osato disturbarmi in alcun modo, forse per paura che rivelassi in che modo erano fuggiti dal Cimitero. Ma spesso, durante la ricreazione, facevano i prepotenti con quei compagni i cui genitori erano sospettati di simpatie per Francisco Franco.

Qualche giorno dopo il mio ingresso a scuola, uno di loro, Bobito, un piccoletto magrissimo e dai capelli sale e pepe che tutti in classe evitavano, perché il suo fratello maggiore era andato via da Durango per arruolarsi col nemico, fuggì alle loro grinfie e venne a ripararsi dietro di me.

— Non è colpa mia, se mio fratello combatte con i fascistas — piagnucolò. Indicò Gotzon e il suo amico e aggiunse: — Gli ho detto che se non la piantano di tormentarmi tu l’avresti detto alla tua amica strega, che gliela farà pagare cara.

Lo fissai stupefatto.

— Quale amica strega?

— Quella ragazzina che ha gli occhi di due colori diversi — balbettò. — La sorguin.

Per un istante fui tentato di affrontare Gozton e Jozeba a muso duro, dato che potevano essere stati solo loro a spargere la voce che io e Susa eravamo diventati amici, anche se in realtà l’avevo vista solo una volta. Poi, invece, mi limitai a fissare i due ragazzi sino a quando entrambi abbassarono gli occhi a terra.

Dopo di che andai dal maestro Cincuenta Centavos e gli parlai all’orecchio.

Lui ingrugnì le labbra più del solito, tanto che il suo muso avvizzito somigliò a quello di uno dei pipistrelli che di giorno sonnecchiavano sotto le tegole del tetto. Schizzò verso i due ragazzi e li costrinse faccia al muro, le gambe tese, in punta di piedi, con le mani sollevate sopra la testa.

— Cosa hai detto al maestro? — mi chiese Bobito.

— Che se quei due non la piantano d’infastidire me e i compagni sarò costretto a lamentarmi col Direttore. E anche al Comando Militare.

Essere il figlio del valoroso Capitano Serra aveva i suoi vantaggi.




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