Infanzia,
adolescenza, giovinezza Tolstoj Fin dal primo esame tutti parlavmo con trepidazione
del professore di latino, il quale si diceva che fosse una specie di bestia
feroce, che si pigliava gusto a far strage dei giovani, particolarmente dei
privatisti, e non discorreva altrimenti che in latino oppure in greco.
St-Jéròme, che era il mio maestro di latino, mi rincarava, e anch'io avevo
l'impressione che, sapendo tradurre senza vocabolario Cicerone, qualche passo
d'Orazio, e conoscendo perfettamente lo Zumpt, fossi preparato non peggio degli
altri: ma la cosa riuscì ben diversa. Tutta quella mattinata non si sentì
parlar d'altro che del disastro di quelli che mi avevano preceduto: tale aveva
preso zero, il tal altro quattro, a un terzo il professore aveva dato per
giunta una stracciata, e voleva espellerlo, e via su questo tono. Soltanto
Sjemjònov e il primo del liceo, come sempre, s'avviarono e tornarono tranquillamente,
con un bel dieci ciascuno. Io già presentivo la catastrofe, quando fui chiamato
con Ikònin a quel piccolo tavolo, di là dal quale il terribile professore stava
seduto solo soletto. Era, il terribile professore, un omettino magro e giallo,
dai lunghi capelli unti e dalla fisionomia meditabonda. Egli diede a Ikònin
il libro delle orazioni di Cicerone, e gli disse che traducesse. A mia gran
meraviglia, Ikònin non solo lesse, ma anche tradusse parecchie righe con l'aiuto
del professore, che gli veniva suggerendo. Sentendo la mia superiorità di
fronte a un così debole rivale, io non potei astenermi dal sorridere, e anche
con un certo disprezzo, quando arrivò al punto di far l'analisi, e Ikònin, al
solito suo, s'immerse in un silenzio che evidentemente non aveva uscita. Con
quel sorriso intelligente, sfumato d'ironia, io avevo intenzione di piacere al
professore: ma il risultato fu l'opposto. «Voi, a quanto pare, siete più bravo,
giacché sorridete» mi disse il professore in un cattivo russo. «Vediamo un po'!
Su, dite voi». Venni a sapere, in seguito, che il professore di latino
proteggeva Ikònin, e che anzi Ikònin stava a pensione da lui. Risposi
immediatamente alla domanda di sintassi che era stata proposta a Ikònin, ma il
professore fece una faccia ingrugnata e si voltò dall' altra parte. «Bene,
bene: verrà anche il vostro turno, e vedremo quel che sapete» esclamò senza
guardarmi negli occhi; e si mise a spiegare a Ikònin ciò su cui lo aveva
interrogato. «Andate pure» soggiunse poi; e io vidi come sul registro dei punti
egli segnava a Ikònin un nove. «Be'» pensai tra me «costui non è affatto tanto
severo quanto dicevano». Dopo che Ikònin si fu ritirato, per almeno cinque
minuti (che a me parvero cinqu'ore) durò a sistemare i libri, i biglietti, a
soffiarsi il naso, ad accomodarsi la poltrona, a rilassarcisi sopra, a guardar
per salone, di qua di là, dappertutto all'infuori che a me. Tutta questa po'
po' di finzione non gli sembrò tuttavia sufficiente: aprì un libro e fece finta
di leggervi, come se io non ci fossi affatto. Io allora mi spostai più avanti,
e tossicchiai. «Ah, già! Ci siete ancora voi! Bene, traducetemi su
qualcosellina» esclamò, mettendomi innanzi uno dei suoi libri. «Oppure no, è
meglio questo, ecco». Si diede a sfogliare il volume d'Orazio, e me lo presentò
aperto a un passo, che nessuno al mondo (a quanto mi sembrò) sarebbe mai
riuscito a tradurre. «Questo, io non l'ho preparato» dissi io. «Voi dunque
vorreste rispondere su ciò che avete imparato a memoria? Benissimo! ... No,
traducetemi proprio questo». Alla meglio io cercai di arrivare a penetrare il
senso, ma il professore, ogni volta che lo interrogavo con lo sguardo,
tentennava la testa e, sospirando, si limitava a rispondere: no. Alla fine,
richiuse il libro con una tal fretta nervosa, da lasciarvi impigliato tra i
fogli il proprio dito; rabbiosamente trattolo fuori, mi diede il biglietto di
grammatica e, gettandosi indietro nella poltrona, si immerse in un silenzio
perfidissimo. Io mi feci a rispondere, ma l'espressione di quel viso mi metteva
i ceppi alla lingua; e qualunque cosa dicessi, avevo l'impressione di
sbagliare. «Non va, non va, e ancora una volta non va» incominciò a dire
quello, di punto in bianco, con la sua pessima pronuncia; e rapidamente mutando
di posizione, s'appoggiò coi gomiti sul tavolo, e giocava con un anello d'oro,
che gli sciacquava allo scarno dito della sinistra. «Così non si può mica,
signori miei, prepararsi a entrare nel massimo istituto di istruzione; voi non
pensate ad altro che a portar l'uniforme col bavero azzurro, v'accontentate di
studiare superficialmente, e credete di poter diventare studenti universitari:
no, signori miei, bisogna possedere a fondo la materia ... » e via di questo
passo. Durante tutto questo discorso, pronunciato in una lingua smozzicata, io
guardavo con ottusa attenzione i suoi occhi fissi a terra. Sulle prime mi fece
soffrire la delusione di non riuscire terzo, poi la paura di non superare
neppure l'esame, e alla fine mi s' aggiunse a tutto questo il senso
dell'ingiustizia che pativo, dell'amor proprio ferito e della immeritata
umiliazione; non solo, ma un disprezzo di quel professore, per il fatto che
egli non era (secondo le mie opinioni d'allora) una persona comme il fout -
cosa che avevo scoperto guardando le sue corte, robuste unghie tondeggianti -
mi rattizzava dentro più che mai e m'inveleniva tutti quei sentimenti.
Lanciatami un'occhiata, e notato il tremito delle mie labbra e le lacrime che
mi riempivano gli occhi, egli interpretò evidentemente la mia agitazione come una
supplica di crescermi un punto; e, con l'aria d'aver compassione di me, disse
(alla presenza, per giunta, d'un altro professore, avvicinatosi in quel
frattempo): «Bene: io vi darò la sufficienza (ciò che significava un sei),
sebbene voi non la meritiate, per un puro riguardo alla vostra giovinezza e
nella speranza che all'università voi non sarete più così leggero ...
». Questa sua ultima frase, detta dinanzi a un professore estraneo, il
quale mi guardava in modo come se dicesse a sua volta: «Già, la è proprio così,
giovinotto», finì con lo sconvolgermi del tutto. Ci fu un minuto, che gli occhi
mi si coprirono di nebbia: il tremendo professore, insieme col suo tavolo, mi
parve seduto chissà dove, lontano lontano, e con spaventosa, unilaterale chiarezza
mi s'affacciò alla mente il folle pensiero: «E se io ... ? che ne verrebbe
fuori?». Ma qualche cosa m'impedì di provarci: anzi, inconsapevolmente,
m'inchinai con ossequio particolare ad ambedue i professori e, con un lieve
sorriso, che doveva essere il medesimo con cui aveva sorriso Ikònin, mi
allontanai dal tavolo. Quella ingiustizia ebbe su me un effetto talmente forte
in quei momenti che, se fossi stato libero di agire a modo mio, non mi sarei
più presentato agli esami. Avevo perduto ogni senso di emulazione (non c'era
ormai n eppur da pensare di riuscire terzo), e gli esami che rimanevano, li
affrontai senz' alcun impegno, e perfino senza trepidazione. Nella media mi
risultò un nove abbondante, ma questo non mi fece né caldo né freddo: avevo deciso
tra me, e me n'ero data la più limpida dimostrazione, che è cosa stupidissima,
e anzi un mauvais genre, cercar d'essere tra i primi, e che bisogna, invece,
far in modo di non riuscire né troppo male né troppo bene, appunto come
Volòdja. […] |