Il paese
delle vocali
Laura Pariani
Casagrande ed.
(…) Tutt'a
un tratto il postino del paese appare sulla porta. "Sacranon! Che burdéll
ca gh'è chichinscì?" vusa, sputando per terra. Sarà per il suo vocione
baritonale, o per la sua corpulenza, ché è un faraone d'uomo, comunque tutti i
centoventitré ragazzini la piantano di indiavolare e, in on esüssi, si
rimettono seduti e zitti al loro posto.
L'uomo scuote il capo con aria di rimprovero, mentre posa sulla cattedra una
lettera e un pacchettino avvolto in carta spessa e marroncina. "Chesti
fiö-chì col maèstar ca gh'éa primma a faséan nó 'stu baccanéri. Chi non sa
fare, lasci stare: se voi non riuscite mica a tenere la classe e farvi
rispettare, è meglio che cambiate lavoro".
Esce a grandi passi, non dopo aver lanciato una nuova occhiata torva alla
scolaresca.
Alla signorina Sirena vengono le lacrime agli occhi e finge di soffiarsi il
naso nel suo grande fazzoletto bianco. Confusamente sente che le parole
disperazione e rabbia sarebbero esagerate: la situazione che sta vivendo non le
permette di sapere che sta provando proprio questo. Si rende conto che dovrebbe
sentire compassione nei confronti di questi suoi scolari, e non, invece, quel
senso di ripulsa che le attanaglia la gola. La scuola che lei ha sognato per
tanti anni era fatta di bambini che volevano imparare, che le portavano
ossequiosamente rispetto, che accettavano l'ordine, che non discutevano le
affermazioni dell'insegnante... Ha voglia di fuggire. Si accorge di essersi
strappata pezzettini di pelle intorno alle unghie.
A l'é anmó ul Lipén a rompere il silenzio: "Sciura maestra, l'é che
nuiàltar siamo paisàn", dice, quasi sottovoce. Non è una frase
interrogativa la sua. Per questo la signorina Sirena ne è colpita: dove siete
vissuta fino adesso, che cosa avete fatto, non sapete niente. Che glielo dica un
bambino di otto anni, le fa ancora più impressione.
Una mano le tira l'orlo della gonna e la fa sobbalzare. Si tratta della
Luisina: "Sciura maestra, l'é ca a capìssum nó... I vocali, i
consonanti... chisti-chì inn robi ca sa pödum nó cumpréndi..." Neanche
questa è una frase interrogativa.
All'improvviso la signorina Sirena estrae un libro dalla borsa. Tüti gli öggi
dei bambini sono fissi su di lei. La giovane donna toglie da una piccola busta
gli occhialini, e li inforca. Quelle piccole lenti sembrano rimarcare ancor più
la distanza tra lei e i suoi alunni, farla diventare più maestra.
Sfoglia velocemente il libro, guarda verso gli scolari con uno sguardo serio.
"Vi ricordate la storia di Pinocchio che vi avevo cominciato a raccontare
la settimana scorsa?" e, senza attendere la risposta, inizia a leggere con
voce un po' tremante, quasi soffocata dall'emozione:
"Pinocchio era stato derubato dei suoi quattro zecchini d'oro, sicché
preso dalla disperazione andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice
i due malandrini che avevano compiuto il furto. Il giudice era un vecchio
scimmione con una barba bianca e gli occhialini d'oro... In sua presenza,
Pinocchio raccontò per filo e per segno l'iniqua frode di cui era stato
vittima; diede il nome e i connotati dei due ladri e finì col chiedere
giustizia". Le frasi del libro escono dalla bocca della signorina Sirena
con un certo timore, dato che la maestra si rende conto della fondamentale
estraneità del racconto a questo suo uditorio di figli di contadini.
Intorno alla maestra si è comunque fatto un grande silenzio. I visi di tutti
sono immobili, gli occhi fissi sulla maestra, l'espressione assorta, gli
orecchi guzzi per non perdere una parola.
La signorina Barberis, senza osare distogliere gli occhi dal libro, percepisce
un'atmosfera diversa, un'attenzione che la rinfranca un po'. Proprio vero quel
che dicono i viggi: parola pizza, vurégia drizza... Con voce più alta e sicura
prosegue:
"Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al
racconto: s'intenerì, si commosse: e quando Pinocchio non ebbe più nulla da
dire, allungò la mano e suonò il campanello. A quella scampanellata comparvero
subito due gendarmi..."
"Tàj-lì i püssé bon!" commenta una voce dal fondo dello stanzone. Nei
ragazzi si diffonde una specie di romorìo di congratulazioni per quel che
sembra la buona riuscita del fatto, manco l'avessero suonato loro il
campanello.
"Allora il giudice, indicando Pinocchio ai gendarmi", continua la
maestra, soddisfatta dal successo del suo raccontare, "disse loro:
"Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d'oro: pigliatelo
dunque e mettetelo subito in prigione"".
Ul Tanu ha un moto di stizza: "Chéll sacraméntu!... Gh'è nó giustìzia a
'sto mondu-chì par i puarìtti..." e scrolla il testone ricciuto.
"Ma i gendarmi", chiede stupita la Luisina, "a pudéan nó fà on
quajcoss?"
"Segon cunfùrma", ribatte ul Pecion. "A te sé tróll piscinìna tì
par cumpréndi 'sti robi-chì... I gendarmi ubbidiscono e basta..."
"Pinocchio, sentendosi dare questa sentenza tra capo e collo, voleva
protestare", la voce della signorina Sirena cerca di superare il brusìo
suscitato da quel commento e di ricatturare l'attenzione. "Ma i gendarmi,
a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabùia.
E lì vi rimase quattro lunghissimi mesi. E vi sarebbe rimasto ancor di più, se
non si fosse dato un caso fortunatissimo... Sapete infatti cosa avvenne?"
La maestra ha alzato finalmente gli occhi dal libro. Tutti, anche i più grandi
delle ultime file, pendono dalle sue labbra. Uno stato di esaltazione la invade
e la innalza di fronte a se stessa - allora riescono a capirmi! - per cui la
voce le diventa squillante:
"Bisogna sapere che l'Imperatore che regnava nella città di
Acchiappa-citrulli avendo riportato una gran vittoria contro i suoi nemici,
ordinò grandi feste pubbliche e, in segno di maggior esultanza, volle che
fossero aperte anche le carceri e mandati fuori tutti i malandrini. "Se
escon di prigione gli altri, voglio uscire anch'io", disse Pinocchio al
carceriere. Ma quello gli rispose di no, perché il condono riguardava solo i
farabutti..."
"Sémpar inscì la sarà: gli onesti, quéj ca sa cumpórtan pulìdu, inn sémpar
legnà..." sbotta ul Terèsio, uno spilungone di nove anni.
"Allora Pinocchio lo assicurò di essere anche lui un malandrino e il
carceriere, sapete cosa fece?" questa volta è la voce della maestra a
essersi interrotta sul più bello. La signorina Sirena guarda il suo uditorio
attento e silenzioso, sorridendo, felice di aver provocato negli scolari
l'attesa del finale della storia. Gh'é nient da püssé bell da 'na facia
cuntenta...
"Sciura maestra, mò 'sa ga sucédi?" chiede la voce della Luisina che
non sta più nella pelle.
"Quando Pinocchio gli ebbe giurato che era proprio un malandrino, il
carceriere, togliendosi rispettosamente il berretto, gli aprì la porta e lo
lasciò uscire!" conclude la maestra, mentre tra le fila dei ragazzi si
diffonde un vocìo generale di soddisfazione. Al Teresio gli ride anche il culo.
"Tüti i gobbi a gh'han ul so drizzu", è il suo commento.
Chi non sembra convinta invece l'é la Luisina: "Ma perché ul carceriere si
leva la berretta?"
"Perché cunt' i scròchi, quelli veri, i malaménti dabòn, si deve star
sempre attenti, can sa sìa..." ride ul Lipén.
Come fanno dei ragazzini così piccoli a dire enormità come queste? La signorina
Sirena è senza parole.
Se ne sono andati tutti. C'è
silenzio adesso nello stanzone vuoto della scuola. La maestra sta seduta sul
cassone, la testa tra le mani. Si è afflosciata su se stessa, in una tristezza
che temeva e aveva paura di riconoscere. Si guarda le scarpe coi tacchi
consumati, le calze rammendate fino al polpaccio. Alla fine scoppia a piangere,
presa dallo sconforto. Probabile che stia sbagliando tutto, questo lavoro è
superiore alle mie forze, sospira. Loro non riescono a capire, e chi ne ha
colpa?... Forse son io che non sono adatta a fare la maestra. Forse si dovrebbe
insegnare in un altro modo... Sono parecchie settimane che è iniziata la scuola
e ancora, con quelli della prima classe, non le è riuscito di andare al di là
delle vocali.
Un rumore la fa sobbalzare. In piedi, stringendosi la giacchetta di panno
addosso a mo' di protezione, si guarda intorno impaurita. La Luisina è spuntata
fuori dal nulla, sta lì a tre passi da lei, la faccia dalle ossa sporgenti resa
ancora più affilata dal cerchio di luce della lampada.
"Beh, cos'hai da guardare?" la voce della giovane donna è quasi
irosa. Le dà fastidio che qualcuno l'abbia sorpresa in questo atteggiamento
così poco autorevole. Lei è la maestra, accidenti... "Allora, che
vuoi?" richiede, sciugandosi le lacrime col fazzoletto che si è levata
dalla manica del vestito. Sono da invidiare le persone che non conoscono le
situazioni di imbarazzo di fronte ai bambini...
"L'é staj bell".
"Cosa?" domanda la signorina Sirena, spazientita.
"La storia del Pinocchio... A scöra la duarìa vèss inscì, fatta di
stórij..."
La maestra si soffia il naso, guarda il viso della bambina, sospira e allunga
il braccio per afferrare la mano della Luisina; quasi volesse grapparsi a lei
per un po' di conforto. "Allora ti è piaciuta?" domanda.
La bambina fa segno di sì con la testa.
"E cosa ti è piaciuto di questa storia?" incalza la signorina Sirena.
"I paróll..."
"Le parole?!" sbotta la maestra, sorpresa; ché le vien quasi da
ridere.
La bambina intanto si è accoccolata davanti al cassone, ha preso tra le mani il
libro da cui la maestra ha letto la storia e lo carezza.
"A génti tame num..." dice la Luisina in un sussurro, "i paisàn,
insomma, a cugnùssan nó i paróll..."
"Ma son qui io per insegnarvele le parole, non capisci? Le parole..."
la signorina si è messa a sedere sul cassone, le mani giunte come in preghiera.
"I paróll inn fàj mìa par i paìsan...A vurì sintì 'na storia, sciura
maestra, ca la me cuntéa sémpar menóna Purtugàla, quandu ca mì a séru
piscinìna?"
"Quando eri piccola?" ride la giovane donna. "Perché adesso cosa
sei?"
"Mì a sòm già grandaséla, ci ho nove anni..." risponde seria la
Luisina. "Ma allora, sciura maestra, la vurì sintì 'sta storia, sì o
no?" la voce della bambina è un po' spazientita, certo che questa maestra
è un po' dura di comprendònio.
"Certo, certo... Racconta".
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